Alessandro Roncaglia

Negli ultimi mesi abbiamo sentito ripetere infinite volte che gli
economisti non hanno previsto la crisi finanziaria ed economica che ci ha
travolto. Perfino la regina d’Inghilterra se ne è lamentata. Di fronte a
queste critiche, la nostra professione deve porsi con urgenza almeno tre
domande. Primo, a nostra parziale discolpa: cosa significa, nel nostro
caso, prevedere un evento? Secondo, a parziale critica della superficialità
dei mezzi di informazione: è vero che gli economisti non hanno previsto
la crisi? Terzo, e più importante: se, come vedremo, alcuni l’hanno
prevista e altri no, da cosa è dipesa la relativa preveggenza degli uni e la
relativa cecità degli altri?
La terza domanda ci porterà a una questione fondamentale, che
merita certo una trattazione più approfondita di quella possibile in un
breve intervento come il mio: la responsabilità di un orientamento
culturale tuttora prevalente tra gli economisti – che può essere indicato,
sempre in modo necessariamente vago, mainstream, o Washington
consensus, o fondamentalismo liberista – nel favorire il formarsi della
situazione di cui la crisi sarebbe divenuta uno sbocco inevitabile.
Innanzitutto, prevedere una crisi non significa indicare in anticipo il
giorno in cui scoppierà, o le precise caratteristiche con cui si svilupperà.
Come i sismologi sono in grado di indicare le zone in cui i terremoti sono
più probabili (tanto che delle loro analisi si tiene conto nel determinare
norme più o meno rigide sul modo in cui costruire gli edifici), così gli
economisti sono, o dovrebbero essere, in grado di indicare le condizioni
in cui le crisi divengono probabili, se non inevitabili. In questo modo, gli
economisti possono anche indicare alle autorità di politica economica
 Sapienza Università di Roma. E-mail: alessandro.roncaglia@uniroma1.it. Testo
dell’intervento tenuto all’Accademia Nazionale dei Lincei, Tavola rotonda su “La crisi:
aspetti economici e sociali”, 10 dicembre 2009. Ringrazio Mario Tonveronachi per gli
utili commenti a una prima stesura di questo lavoro. Alcune delle tesi qui esposte solo
sinteticamente sono sviluppate più ampiamente in Roncaglia (2010).
108 Moneta e Credito
cosa fare per ridurre le probabilità della crisi o, oggi, il suo ripetersi in
forme ancora più gravi.
Nel senso che ho appena accennato, se è vero che la stragrande
maggioranza degli economisti non ha previsto la crisi, è anche vero che
vari economisti ne hanno segnalato in anticipo l’approssimarsi. Paolo
Sylos Labini, in un articolo pubblicato nel settembre 2003 su Moneta e
Credito (ripubblicato 2009), aveva espresso “gravi preoccupazioni sulle
prospettive dell’economia americana, che condiziona fortemente le
economie degli altri paesi e, in particolare, quelle europee” (Sylos Labini,
2009, p. 61). Le preoccupazioni erano motivate da “alcune rassomiglianze
fra la situazione che si era determinata in America negli anni
Venti del secolo scorso, un periodo che sboccò nella più grave
depressione della storia del capitalismo, e la situazione che si andava
delineando oggi in America” (Ibid., p. 61). In particolare, Sylos Labini
segnalava “due bolle speculative, una in borsa e l’altra nei mercati
immobiliari” (Ibid., p. 63); la sua diagnosi si basava anche sull’aumento
della diseguaglianza nella distribuzione del reddito e sulla crescita del
debito, pubblico e privato. (Questo articolo, mai citato dagli editorialisti
economici dei grandi quotidiani, è da tempo disponibile a tutti
nell’archivio degli scritti di Sylos Labini su internet, all’indirizzo
www.syloslabini.info).
Già in precedenza Charles Kindleberger, il grande storico delle crisi
finanziarie, aveva segnalato in questa stessa rivista la formazione di una
bolla nei mercati immobiliari (Kindleberger, 1988 e 1995, ripubblicati
2009a e 2009b). Su questa base aveva sostenuto – in contrapposizione
alla politica seguita dall’allora presidente della Federal Reserve,
Greenspan – che la politica monetaria dovrebbe tenere sotto controllo
l’inflazione degli assets, cioè di attività patrimoniali come le azioni e gli
immobili. I suoi articoli, assieme a quello di Sylos Labini e ad altri
egualmente preveggenti, di Wynne Godley (2009), Mario Sarcinelli
(2009), Mario Tonveronachi (2009) e altri, sono raccolti nel numero
speciale (2009) che inaugura la nuova serie di Moneta e Credito. Lavori
di impostazione analoga sono stati pubblicati altrove; segnalo in
particolare le pubblicazioni del Levy Economics Institute (reperibili
all’indirizzo www.levy.org), di cui era stato Senior Scholar Hyman
Le origini culturali della crisi 109
Minsky, il grande teorico delle crisi finanziarie scomparso nel 1996, e di
cui è ora Senior Scholar Jan Kregel.
Il punto, sul quale torneremo più avanti dopo avere rapidamente
richiamato le caratteristiche salienti della crisi, è che gli economisti
appena ricordati condividono, in misura maggiore o minore, una
impostazione keynesiana, o quanto meno sono pragmaticamente liberi dai
paraocchi culturali che hanno impedito agli economisti mainstream di
cogliere il formarsi delle precondizioni per una grossa crisi, e quindi di
porvi rimedio per tempo, per quanto possibile.
Com’è noto, la bolla immobiliare statunitense ha costituito l’origine
immediata della crisi. Di per sé, si è trattato di un forte scossone, che però
non avrebbe potuto portare a una crisi come quella che abbiamo
sperimentato; tuttavia, esso è intervenuto a destabilizzare un castello di
carte assai fragile e ben più ampio, quello dei mercati finanziari. A causa
soprattutto dello sviluppo dei cosiddetti prodotti derivati, le attività
finanziarie erano arrivate a un valore pari a oltre dieci volte il PIL
mondiale. La formazione di una massa finanziaria di queste dimensioni
era stata resa possibile dalle opportunità di profitto che i mercati
finanziari offrivano; in effetti, questi mercati sono arrivati ad assorbire
una quota straordinariamente elevata dei profitti complessivi, fino al 40%
negli Stati Uniti, permettendo quei livelli straordinariamente elevati di
retribuzioni per i manager del settore di cui si è tanto parlato.
Contemporaneamente, nella stessa direzione ha operato una normativa
lassista, fondamentalmente basata sull’idea che i mercati, finanziari o non
finanziari, costituiscono di per sé meccanismi di autoregolazione con i
quali è meglio non interferire.
La stessa regolazione prudenziale delle banche, le cosiddette regole
di Basilea (che non riguardano tutte le istituzioni finanziarie, ad esempio
negli Stati Uniti non riguardavano le banche d’affari, come la Lehmann
Brothers), è costruita sulla base di un’idea tipica dell’individualismo
metodologico sottostante l’approccio mainstream: l’idea secondo cui il
rischio complessivo di destabilizzazione del sistema economico nel suo
complesso – il cosiddetto rischio sistemico – è costituito dalla somma dei
rischi individuali. Di qui la tesi, ripetuta anche di recente, che il problema
era, ed è, rappresentato esclusivamente dalla presenza di istituzioni too
110 Moneta e Credito
big to fail (troppo grosse per fallire) e non anche dalla possibilità che i
fallimenti di istituti finanziari di medie e piccole dimensioni assumano un
rilievo sistemico. Questo è solo un esempio di quanto si siano trascurate
le forti interconnessioni che caratterizzano i moderni sistemi finanziari, e
che sono fonte dei processi di trasmissione e amplificazione della crisi.
Inoltre, la libertà dei rischi di migrare verso intermediari e mercati meno
o non regolamentati rispetto alle banche ha permesso una enorme crescita
di attività finanziarie a fronte di proporzioni globalmente decrescenti di
capitale e liquidità. Così la leva finanziaria (o leverage), cioè il rapporto
tra attività finanziarie e patrimonio proprio, era arrivato per molte
istituzioni a livelli straordinariamente elevati, con il rischio che una
perdita relativamente modesta sarebbe stata sufficiente a provocare
l’insolvenza o il fallimento dell’istituzione stessa. (Ad esempio, se il
leverage è 20, basta una perdita del 5% per assorbire tutto il capitale). A
livello di sistema, l’enorme crescita delle attività finanziarie trovava
ovviamente corrispettivo nella crescita del grado di indebitamento del
sistema finanziario al suo interno e delle famiglie.
La crescita della finanza – la cosiddetta finanziarizzazione
dell’economia – è stata favorita dall’evoluzione degli assetti del sistema
monetario internazionale dopo la crisi del sistema di Bretton Woods, sia
per l’importanza assunta dai movimenti di capitale a breve termine diretti
a trarre vantaggio dai movimenti dei cambi, sia perché il sistema di cambi
flessibili aveva favorito il ricorso a contratti future sulle valute. A questo
si era poi affiancato il passaggio della Federal Reserve statunitense, nel
1979, da una politica di controllo dei tassi d’interesse a una politica di
controllo della base monetaria, che aveva accresciuto l’instabilità dei tassi
d’interesse e favorito il ricorso a contratti future e swap sui tassi.
In entrambi i casi si è trattato di evoluzioni considerate
favorevolmente da quegli orientamenti della teoria economica, come il
monetarismo, che attribuiscono alla libera fluttuazione dei prezzi, inclusi
i tassi di cambio e i tassi d’interesse, una capacità automatica di
regolazione dei mercati. La finanziarizzazione dell’economia è stata
cantata – esaltando il modello anglosassone centrato sui mercati, rispetto
a quello cosiddetto ‘renano’ basato sulla centralità della banca – come
elemento di flessibilità favorevole alla crescita; possiamo citare ad
Le origini culturali della crisi 111
esempio il libro di Rajan e Zingales, Salvare il capitalismo dai capitalisti,
uscito nel 2003: un testo in cui le tesi opposte, come quelle ben note di
Keynes o quelle di Minsky sui rischi di uno sviluppo della speculazione
finanziaria, sono state semplicemente ignorate.
In realtà, quando i meccanismi automatici di riequilibrio dei mercati
non esistono o non operano bene, come accade ad esempio nel caso dei
disavanzi pubblici o di quelli delle partite correnti di bilancia dei
pagamenti, la possibilità e l’interesse del settore finanziario a espandersi a
dismisura offrono uno strumento per rinviare la soluzione dei problemi,
che però nel frattempo continuano a crescere di dimensioni. Questo è
proprio quanto sta accadendo oggi, anche grazie alle fortissime iniezioni
di liquidità attuate a partire dall’ottobre 2008 da tutte le banche centrali
per evitare il collasso del sistema finanziario.
Gli squilibri macroeconomici, in queste condizioni, si
sovrappongono a quelli microeconomici, che riguardano le singole
istituzioni finanziarie: un default sul debito estero della Grecia o
dell’Ucraina costituirebbe uno scossone non sopportabile per alcune tra le
maggiori istituzioni finanziarie. Pure le operazioni finanziarie
speculative, o anche quelli che in teoria dovrebbero essere arbitraggi
esenti da qualsiasi rischio, potrebbero generare grossi scossoni. Ad
esempio, uno degli economisti che avevano previsto la crisi, Nouriel
Roubini, ha sottolineato in un recente articolo sul Sole 24 Ore (3
novembre 2009) che una interruzione della discesa del dollaro metterebbe
in crisi gli operatori che hanno in corso operazioni di carry trade, cioè
hanno preso in prestito dollari per investirli in altre valute.1
Anche nei casi in cui vengono realizzate operazioni di copertura
(non frequenti dati i loro costi, che assorbirebbero la maggior parte dei
profitti), cioè quando i contratti di cambio di dollari in altre valute
1 Qui come altrove (incluso il riferimento, subito sopra, a una possibile crisi del debito
greco) ho lasciato invariato il testo presentato all’Accademia dei Lincei, con la sola
aggiunta dei riferimenti bibliografici. L’inversione di rotta del dollaro rispetto all’euro,
del tutto inattesa all’epoca, dati il debito estero e i passivi di partite correnti degli Stati
Uniti, si è poi realizzata sulla scia della crisi del debito greco, almeno in parte accentuata
ad arte dalle autorità tedesche, verosimilmente con l’obiettivo di un rilancio delle proprie
esportazioni manifatturiere. Non è dato, al momento, sapere quali problemi ciò abbia
provocato nei conti economici delle imprese finanziarie impegnate nel carry trade.
112 Moneta e Credito
vengono “chiusi” immediatamente con operazioni a termine di segno
opposto (vendita a termine delle altre valute in cambio di dollari), resta il
rischio di controparte. A questo proposito occorre osservare che le forme
di assicurazione adottate per far fronte a quest’ultimo rischio, i cosiddetti
credit default swaps, rischiano di venire meno proprio quando ve ne è
bisogno, in quanto in assenza di vincoli regolamentari questi contratti non
prevedono accantonamenti per far fronte a rischi sistemici. In altri
termini, con questi contratti il sistema finanziario assicura se stesso,
quindi l’assicurazione viene meno proprio quando ci si trova di fronte a
una difficoltà che investe tutto il sistema finanziario, cioè proprio quando
ve ne sarebbe bisogno per assicurare la stabilità sistemica.
Questi brevi cenni dovrebbero essere sufficienti a indicare quali
rischi comportasse, e comporti tuttora, il funzionamento a briglie sciolte
del sistema finanziario. Tuttavia, la stessa cecità che aveva accompagnato
e favorito la formazione delle condizioni nelle quali è nata la crisi,
influisce oggi nel depotenziare le drastiche scelte di politica economica
che sarebbero urgentemente necessarie. Se la crisi fosse nata solo da
circostanze irripetibili o da errori di valutazione, se fosse di breve durata
e rapidamente seguita da una corposa ripresa, se anzi costituisse – come
molti hanno affermato – un momento di distruzione creatrice che
addirittura giunge ad aiutare lo sviluppo continuo dell’economia, allora
non vi sarebbe necessità di imbrigliare la finanza. (Vale la pena di
ricordare a questo proposito che la tesi della crisi come momento di
distruzione creatrice, originariamente proposta da Schumpeter, si fonda
sull’assunto che l’economia oscilli attorno a un sentiero di equilibrio
caratterizzato da pieno utilizzo delle risorse e piena occupazione: fuori di
questo caso, la tesi viene a cadere, costituisce solo una falsa
giustificazione dei fautori del fondamentalismo liberista di fronte alle
sofferenze umane causate dalla crisi.) Se invece si riconosce che la crisi è
derivata dalla fragilità del castello di carte finanziario, e che l’unico modo
per evitare il suo ripetersi in forme sempre più gravi è introdurre regole
per evitare la formazione di nuove bolle finanziarie, allora non si può che
concludere che ogni settimana persa accresce il rischio che tuttora
corriamo.
Le origini culturali della crisi 113
In sostanza, le scelte di politica economica sono certo condizionate
dagli interessi in gioco, ma sono anche influenzate, in modo spesso
decisivo, dalle interpretazioni sul modo di funzionare delle economie di
mercato, cioè dagli orientamenti teorici (che a loro volta possono essere
più o meno favoriti dagli interessi in gioco). In questo senso, appunto,
possiamo dire che la crisi ha avuto le sue radici culturali in una
impostazione teorica che ha favorito il laissez-faire non regolamentato.
Non si tratta, si badi bene, di una opposizione tra mercato e
pianificazione, ma di una opposizione tra due diverse idee del mercato.
Da un lato abbiamo l’idea del mercato come luogo di confronto tra
domanda e offerta che, se lasciato libero di funzionare, porta a equilibri
ottimali. Dall’altro lato abbiamo l’idea del mercato come una istituzione
complessa, basata su regole e consuetudini di comportamento, che è
necessaria a un sistema basato sulla divisione del lavoro, in cui ogni
soggetto economico produce un bene o servizio specifico e ha bisogno
dei beni e servizi prodotti dagli altri per il processo produttivo.
Secondo i principi del laissez-faire, meno regole ci sono, meglio
funzionano i mercati. (Entro certi limiti questo è sicuramente vero; però,
come serve una normativa per l’edilizia antisismica nelle zone a rischio,
così servono regole per evitare una eccessiva fragilità delle costruzioni
finanziarie.) Il cosiddetto Washington consensus predicava appunto una
politica di liberalizzazioni, che dagli Stati Uniti avrebbe dovuto
estendersi al vecchio continente “malato di eurosclerosi”, ai paesi che
uscivano dalla fallimentare esperienza della pianificazione centralizzata,
fino ai paesi in via di sviluppo. La presenza nel mondo di paradisi
normativi e fiscali, sostanzialmente accettati senza reagire, anche al costo
di favorire l’economia criminale, costituiva inoltre un incentivo per una
corsa al ribasso regolamentare. Ancora oggi, sarà difficile realizzare una
efficace regolamentazione dei mercati finanziari se non si pone rimedio a
questo aspetto.
Le differenze fra le due concezioni teoriche cui accennavo sopra
vengono spesso negate, anche con una rilettura ad hoc della storia del
pensiero economico, dalla teoria prevalente, che pretende di ricondurre al
suo interno gli elementi delle concezioni alternative che i fatti del mondo
di volta in volta propongono come importanti. Questo è accaduto per le
114 Moneta e Credito
asimmetrie informative come per i costi di transazione, per la teoria
dell’oligopolio basata sulle barriere all’entrata come per la teoria
keynesiana. Qui posso solo accennare rapidamente ad alcuni punti.
Innanzitutto, quello della mano invisibile del mercato è un mito: nel
duplice senso che è un mito la sua attribuzione ad Adam Smith, e che è
un mito la sua validità teorica, anche in riferimento a un mondo di
perfetta razionalità e di perfetta concorrenza. Per lo sviluppo di questa
tesi non posso ora che rinviare al mio lavoro intitolato appunto Il mito
della mano invisibile (Roncaglia, 2005). Ricordo solo che la stessa teoria
pura dell’equilibrio economico generale riconosce la non dimostrabilità
dell’unicità e della stabilità degli equilibri concorrenziali, se non sotto
condizioni molto specifiche, mentre la macroeconomia moderna è stata
costruita sulla base di assunti palesemente ridicoli, come il riferimento a
un mondo con un solo bene (per la precisione, con un solo bene base) e
con un solo tipo di soggetto economico, il cosiddetto agente
rappresentativo, e limitandosi comunque a studiare le situazioni di
equilibrio senza prendere più in considerazione il problema della stabilità.
Un altro aspetto fondamentale di distinzione tra la concezione
teorica mainstream e quella keynesiana delle origini, a mio parere più
direttamente rilevante per l’interpretazione del funzionamento dei mercati
finanziari, riguarda la distinzione tra incertezza e rischio. Anche qui,
semplificando, possiamo individuare due concezioni: quella di Frank
Knight, uno dei fondatori della scuola di Chicago, sostanzialmente
accolta nella tradizione mainstream, e quella di Keynes, rimasta nel
limbo dell’eterodossia. Curiosamente, i due volumi in cui le due
concezioni sono esposte – Risk, uncertainty and profit di Knight e
Treatise on probability di Keynes – sono stati entrambi pubblicati nel
1921. Temo che entrambi i testi, pur spesso citati, siano letti molto
raramente; quel che è passato nella cultura economica dominante è solo la
distinzione di Knight, spesso erroneamente attribuita anche a Keynes, tra
rischio probabilistico, misurabile e quindi oggetto della teoria matematica
della probabilità, e incertezza, che per sua natura non può essere oggetto
di valutazione quantitativa.
La distinzione di Knight non è nuova; in realtà il contributo che
aveva cercato di sviluppare nel suo volume consisteva in una
Le origini culturali della crisi 115
giustificazione del profitto, considerato come la remunerazione della
peculiare capacità del vero imprenditore di prendere le decisioni più
opportune in condizioni di incertezza. Secondo la concezione classica
della probabilità, sviluppata da Jacques Bernoulli (1713) in poi, la
nozione di rischio è applicabile a quelle situazioni in cui si conoscono
con certezza gli esiti possibili e le rispettive probabilità. L’analisi del
rischio può quindi essere condotta utilizzando la teoria matematica della
probabilità, che dalle probabilità degli eventi semplici ricava quella degli
eventi complessi (ad esempio, quante probabilità ho di ottenere 7 come
somma di due dadi?), e riguarda quindi fenomeni come una roulette ben
costruita, un gioco di carte con un mazzo non truccato, le estrazioni del
lotto. L’incertezza, invece, è qualcosa di sostanzialmente diverso dal
rischio probabilistico, anche se è difficile darne una definizione precisa:
include tutti i casi in cui non abbiamo un criterio certo per stabilire la
probabilità di un evento, e copre quindi una gamma di situazioni assai
diverse fra loro.
Nel dopoguerra, questa concezione si è evoluta sotto l’influenza
della teoria soggettiva della probabilità, sviluppata da Ramsey (1931) e
De Finetti (1930, 1931) (e, negli Stati Uniti, dallo statistico Savage,
1954), che tramite il ricorso a valutazioni soggettive sulle probabilità dei
vari eventi ha trovato il modo di assimilare l’incertezza al rischio,
rendendola trattabile matematicamente. Secondo questa concezione,
possiamo avere valutazioni di probabilità per qualsiasi evento possibile,
ogni volta che il soggetto sia disposto a scommettere pro o contro
l’evento, indicando in tal modo la sua valutazione personale tramite
l’ammontare delle poste. Un mercato delle scommesse può poi dare
luogo, per ciascun evento, a un valore medio del coefficiente di
probabilità. In questo modo, anche l’incertezza non direttamente
riconducibile a casi di rischio probabilistico – che costituisce una
caratteristica fondamentale del mondo in cui viviamo – può essere
riassorbita nel campo della teoria della probabilità, il cui compito risulta
essere quello di assicurare la coerenza interna tra le diverse scommesse
effettuate da ciascun individuo.
L’estensione alla teoria economica di questa concezione è stata
compiuta da von Neumann e Morgenstern con la cosiddetta teoria delle
116 Moneta e Credito
utilità attese, in cui ciascun individuo, oltre a un suo specifico insieme di
preferenze, ha anche specifiche aspettative sul futuro, organizzate in uno
schema coerente.
La concezione di Keynes (illustrata in Roncaglia, 2009b) è diversa.
Secondo Keynes, di norma ci troviamo in situazioni intermedie tra la
completa certezza (che include il caso del rischio probabilistico) e la
totale ignoranza. Sulla base della nostra conoscenza della realtà, abbiamo
qualche elemento per valutare la probabilità di un evento: in alcuni casi
con maggiore fiducia, in altri solo in modo talmente vago da rendere
inappropriato qualsiasi tentativo di giungere a valutazioni numeriche di
probabilità. A tale riguardo Keynes propone un concetto, quello di
“fiducia nella valutazione della probabilità”, da affiancare a quello di
probabilità. Ovvero la fiducia che ho nella mia valutazione.
Un aspetto di questa concezione, molto discusso in varie forme nella
Cambridge dell’epoca (ad esempio, ricomparirà nelle discussioni tra
Sraffa e Wittgenstein, illustrate in Roncaglia, 2009a, pp. 126-31),
riguarda il fatto che per il mondo concreto in cui viviamo non è possibile
avere una definizione netta, completa e univoca del cosiddetto “spazio
degli eventi”, cioè dell’insieme degli eventi possibili. Se sto parlando del
lancio di un dado concreto, non posso fermarmi ai sei eventi teorici,
costituiti dall’uscita di una delle sei facce; può accadere che il dado venga
disintegrato da un raggio laser mentre è per aria, o scompaia cadendo in
un tombino, o mille altre possibilità del genere. Se nel caso del dado
eventi di questo tipo sono sufficientemente implausibili da poter essere
trascurati, nel caso delle normali vicende della vita è sempre possibile che
si verifichi qualcosa di totalmente inatteso.
Ora, le tecniche di matematica finanziaria sulla base delle quali sono
stati sviluppati i prodotti della finanza derivata implicano due assunti
principali: l’idea che l’esperienza del passato, ad esempio per quanto
riguarda la varianza delle variabili considerate, sia una guida
sufficientemente sicura per il futuro (cioè un assunto di costanza della
struttura economica), e l’idea che i valori espressi dal mercato per le
principali variabili finanziarie, come le quotazioni di borsa o la struttura
dei tassi d’interesse per scadenza, siano espressione media delle
aspettative degli operatori finanziari. Le operazioni di arbitraggio, che
Le origini culturali della crisi 117
sono all’origine di una quota ampia e crescente di attività nel settore dei
derivati, si basano sull’assunto che i sistemi di aspettative degli operatori
siano internamente coerenti, permettendo quindi l’utilizzo della teoria
matematica della probabilità. Tutto ciò ha portato a una forte
sottovalutazione dell’incertezza presente nel mercato. La certezza, sia
pure probabilistica, è stata assunta quasi per convenzione, dato che
assumerla conveniva agli operatori, ciascuno dei quali individualmente
non è interessato al rischio sistemico, mentre può pensare che in presenza
di prestatori e salvatori di ultima istanza garanti della sopravvivenza dei
mercati finanziari, si possa realizzare una situazione di “profitti privati,
perdite pubbliche”, come di fatto è accaduto.
“Chi prevede il futuro mente, anche quando dice la verità”, recita un
vecchio proverbio arabo. Seguendo i loro interessi immediati, gli
operatori finanziari hanno trascurato la sapienza insita in questo antico
adagio. Ne è derivata una struttura finanziaria sempre più fragile, proprio
come aveva previsto la teoria delle crisi di Minsky (1982). I costi del
collasso che ne è seguito sono ricaduti sulla collettività. Ora, dopo gli
interventi immediati a sostegno di una struttura che minacciava di
crollare in rovine, gli interventi per risanare l’edificio sembrano essere
rinviati da un vertice dei G8 o dei G20 all’altro, in una girandola di
riunioni politiche e tecniche, mentre la pressione degli interessi in campo
torna a farsi sentire e la fragilità dell’edificio della finanza internazionale
è tornata a crescere. In questa situazione, pur con la consapevolezza che il
futuro è impossibile da prevedere, l’ottimismo interessato dimostrato da
tanti appare privo di fondamento e, soprattutto, assai pericoloso.
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Alessandro Roncaglia