Attualità dello Statuto dei lavoratori

Sottotitolo: 
Una riforma non neutrale rispetto all’assetto di potere, che migliorava la posizione della parte più debole nel rapporto lavorativo, La richiesta neoliberista di ristabilire piena flessibilità del mercato del lavoro ha in realtà l’obiettivo di modificare i rapporti di forza contrattuale tra lavoratori e datori di lavoro.

Nella contrapposizione tra dignità del lavoratore ed esigenza dell’organizzazione gerarchica, molto dipende da come le cose sono organizzate concretamente. Tra i due estremi di una società schiavista e di una società di lavoratori autonomi – di fatto impossibile, dati gli irrinunciabili vantaggi della divisione del lavoro – esiste un vasto terreno intermedio. La maggiore o minore vicinanza all’uno o all’altro estremo dipende dalle istituzioni (cultura e leggi); lo sviluppo civile, che è favorito dallo sviluppo tecnologico ed economico, comporta uno spostamento in direzione opposta rispetto alla società schiavistica.

Arriviamo così allo Statuto dei lavoratori, che a maggio ha compiuto cinquant’anni. Si tratta di una legge che rappresenta uno spostamento deciso, ma economicamente, politicamente e socialmente sostenibile, nella direzione di una società più civile. Ha suscitato tante controversie ed è stata modificata più volte, ma per molti aspetti ha retto bene il tempo – il che dipende anche dal lungo lavoro speso per costruirla, da parte di un ampio gruppo di politici e specialisti, non solo di diritto ma anche di economia, statistica, perfino medicina del lavoro.

Su impulso del ministro Giacomo Brodolini, che guidò con successo la legge nel suo difficile iter parlamentare, i vari gruppi informali di lavoro che si occuparono dei vari aspetti della legge erano coordinati da Gino Giugni, grande giurista ma anche attivamente impegnato nell’attività politica. Il tanto lavoro impiegato nella stesura della bozza di legge dipende appunto dalla necessità di trovare per vari aspetti un adeguato bilanciamento delle esigenze contrapposte. Non si trattava di fare la rivoluzione, ma di costruire una riforma, diretta a migliorare la posizione del lavoratore all’interno del rapporto lavorativo, per quanto possibile nella situazione del momento. Più precisamente, si trattava di una “riforma di struttura” nell’accezione di Riccardo Lombardi: una riforma non neutrale rispetto all’assetto di potere, che migliorava la posizione della parte più debole nel rapporto lavorativo, l’ultima delle riforme che caratterizzarono la stagione del primo centro sinistra e probabilmente, assieme a quella della scuola media unica, la più importante.

Risulta difficile spiegare a chi non ha avuto una esperienza diretta degli anni Cinquanta e Sessanta la portata, non rivoluzionaria ma certo di notevole cambiamento, che lo Statuto ebbe, con la scomparsa più o meno graduale e mai completa dei ‘reparti punizione’ nelle fabbriche – spesso i reparti presse o verniciatura –, delle squadre di picchiatori mascherate da squadre amatoriali di rugby per debellare i picchetti in occasione degli scioperi, delle ripetute molestie sessuali cui erano sottoposte le lavoratrici da parte di capi e capetti, della selezione politicamente faziosa dei lavoratori da assumere; e così via.

Certo la situazione non poteva cambiare da un giorno all’altro, ed era necessario per molti aspetti un vero e proprio cambiamento di mentalità: purtroppo ancora non del tutto raggiunto, anche se aiutato dal graduale cambiamento della natura del lavoro con l’ampliamento dei contenuti specialistici e della quota di lavoratori qualificati, anche altamente qualificati: un cambiamento che si è accelerato con l’informatizzazione dei processi produttivi, nei servizi come nella manifattura. Purtroppo gli elevati livelli di disoccupazione accrescono il potere relativo dei datori di lavoro e le violazioni dello Statuto non sono infrequenti, pur trovando un argine in una cultura diffusa più sensibile alla difesa della dignità dei lavoratori di quanto fosse sessant’anni fa. Lo Statuto, dunque, cercava di ampliare gli spazi di dignità del lavoro e del lavoratore.

Gli aspetti sui quali intervenne sono molteplici, anche se il dibattito successivo si è concentrato quasi esclusivamente sul licenziamento per giusta causa. Anche qui, come si è visto nei dibattiti successivi, il problema è stato quello di trovare il giusto equilibrio tra le esigenze di flessibilità imprenditoriale e le esigenze di stabilità esistenziale del lavoratore. Il licenziamento non può essere adottato a piacimento, ma solo per “giusta causa” o per “giustificato motivo”: in tutte le discussioni successive, il principio non è mai stato posto in discussione, mentre la discussione, spesso accesa, ha riguardato la sua esatta declinazione.

Si è avuta una pratica giudiziaria spesso assai rigida di applicazione della normativa statutaria (come nei casi frequenti di richiesta di condanna definitiva del lavoratore per accordare al datore di lavoro la “giusta causa” nel licenziamento di lavoratori accusati di danneggiamenti al macchinario o ai prodotti, o di violenza in occasione di scioperi) e questo ha costituito motivo di forti pressioni per modifiche normative dirette a rendere meno stringenti i vincoli, specie per quanto riguarda l’obbligo di riassunzione, che hanno in pratica portato alla possibilità per l’azienda di procedere comunque ai licenziamenti desiderati al costo di indennizzi neppure esorbitanti (salvo casi clamorosi di discriminazione razziale o politica o di reazione ad attività sindacali).

Inoltre, rimane possibile il licenziamento anche collettivo per ragioni economiche. In realtà, la flessibilità contrattuale è stata spesso ricercata dalle imprese per ridurre i costi salariali, dati i minori carichi contributivi associati ai contratti di lavoro flessibile. Accettare questo nesso è stato un grave errore: i contratti di lavoro flessibili avrebbero dovuto essere associati con maggiori, non minori, oneri contributivi; gli imprenditori avrebbero così potuto scegliere il grado di flessibilità che avessero ritenuto necessario ma sopportando un costodisincentivo, che fra l’altro avrebbe permesso minori vincoli e controlli sulla scelta tra i vari tipi di contratto. Inoltre, una riforma in direzione di una maggiore flessibilità dei rapporti di lavoro dovrebbe essere accompagnata dal conseguimento permanente di bassi livelli di disoccupazione e da politiche di sostegno dei redditi dei lavoratori disoccupati: il modello della flexsecurity danese non può essere adottato solo per metà, la flessibilità in assenza di security.

Un aspetto per il quale i cambiamenti sono stati anche più drastici, fino all’abrogazione nel 2002 dei relativi articoli 33 e 34 dello Statuto, riguarda le assunzioni. Qui il problema era quello  di stabilire il confine tra chiamate numeriche (dagli elenchi dei disoccupati predisposti dagli uffici del lavoro) e chiamate nominative: le prime permettevano con certezza, al di là delle dichiarazioni di principio, di evitare discriminazioni politiche, razziali o sessuali nelle assunzioni; le seconde permettevano all’azienda di scegliere i lavoratori più adatti alle mansioni che erano destinati a ricoprire. Ricordo al riguardo una lunga discussione, in uno dei gruppi di lavoro organizzati da Giugni per la stesura della legge, tra i fautori della chiamata numerica e quelli della chiamata nominativa nel caso dei palombari del porto di Genova: il metodo di lavoro seguito da Giugni nella scrittura della proposta di legge – un metodo che risentiva della sua formazione statunitense – consisteva appunto nell’individuare, articolo per articolo, casi concreti sui quali verificare gli effetti di formulazioni alternative della normativa.

Nella sostanza, poi, la progressiva diversificazione e il crescente contenuto di qualificazione dei ruoli lavorativi da un lato e le carenze degli uffici del lavoro dall’altro lato hanno comportato la vanificazione di queste norme, fino alla loro abrogazione definitiva. Un aspetto viceversa per il quale le modifiche intervenute nel corso del tempo sono state relativamente minori riguarda le procedure sanzionatorie (articolo 7 dello Statuto). Fatta salva la possibilità di richiami orali, si riconosce da un lato il diritto del datore di lavoro ad applicare sanzioni nei casi di violazioni degli obblighi contrattuali o di comportamenti dannosi per l’azienda da parte del lavoratore; dall’altro lato si riconosce il diritto del lavoratore alla piena salvaguardia della sua dignità, quindi il diritto ad essere preventivamente informato delle proposte di sanzione e a difendersi nel relativo percorso decisionale (anche con garanzie di terzietà come la presenza di rappresentanti sindacali, specie nel caso delle sanzioni più pesanti).

La statuizione di nullità delle sanzioni nei casi di violazione delle procedure è rimasta immutata per mezzo secolo, è ribadita nella normativa successiva allo Statuto e nei contratti collettivi di lavoro ed è regolarmente confermata nei casi di ricorso all’autorità giudiziaria. Il dibattito tra economisti sullo Statuto ha riguardato soprattutto la cosiddetta flessibilità del mercato del lavoro; in questo senso coinvolge il confronto tra impostazioni teoriche contrapposte nel campo dell’economia. La tradizionale teoria marginalista, tuttora dominante, ritiene che la “mano invisibile” del mercato sia in grado di realizzare equilibri ottimali, garantendo il pieno utilizzo delle risorse disponibili (e quindi la piena occupazione) se solo si assicura la piena competitività del mercato del lavoro: si ritiene cioè che la flessibilità verso il basso del salario prodotta dalla concorrenza tra i lavoratori alla ricerca di un posto di lavoro in presenza di disoccupazione favorisca l’aumento della domanda di lavoro e quindi il ritorno all’equilibrio di piena occupazione.

La teoria keynesiana, viceversa, ritiene che la diminuzione del salario sia semmai controproducente, generando un calo della domanda di beni e servizi di consumo e quindi anche degli investimenti, proprio quando la presenza di disoccupazione segnala che la domanda aggregata è troppo bassa. Inoltre, sulla scia di una lunga tradizione che risale a Turgot e Adam Smith per giungere fino a Elton Mayo, molti studi applicati mostrano che un maggior senso di coinvolgimento o quanto meno un minor senso di contrapposizione dei lavoratori rispetto all’impresa favorisce aumenti di produttività.

La richiesta neoliberista di ristabilire piena flessibilità del mercato del lavoro ha in realtà l’obiettivo di modificare i rapporti di forza contrattuale tra lavoratori e datori di lavoro, già peggiorati in conseguenza dei lunghi periodi di crisi e ristagno economico che hanno portato, a partire dagli anni ’70, a un aumento dei tassi di disoccupazione: come è testimoniato tra l’altro dalle crescenti diseguaglianze nella distribuzione del reddito, con un capovolgimento della tendenza prevalente nel quarto di secolo precedente.

Cosa diversa, e assai poco considerata nel dibattito economico, è l’importanza della flessibilità organizzativa all’interno delle imprese in presenza di cambiamento tecnologico. Qui il problema non riguarda la possibilità di licenziare, ma piuttosto quella di modificare (magari anche in meglio) le mansioni lavorative, con la disponibilità dei lavoratori ad affrontare nuove sfide e quella delle imprese ad organizzare quando necessario percorsi di riqualificazione (e a concordare/giustificare con il lavoratore la riorganizzazione del processo produttivo: un aspetto in cui hanno eccelso datori di lavoro e sindacati tedeschi, con notevoli vantaggi in termini di competitività internazionale). Di questa flessibilità c’è bisogno, in misura maggiore di quanto finora riconosciuto da parte sindacale in paesi come l’Italia e il Regno Unito (con il rischio, che in qualche misura si è concretizzato, che di fronte alla resistenza di retroguardia a questo tipo di flessibilità si sia poi costretti ad accettare la più generale flessibilità di tipo neoliberista).

Lo Statuto (articolo 13) garantisce al lavoratore una difesa contro il demansionamento, o una progressione di carriera nei casi di svolgimento effettivo di mansioni di livello superiore a quello di inquadramento; tuttavia non considera il ben più importante caso di un cambiamento nella tipologia stessa delle carriere, come quello che si verifica con l’informatizzazione dei processi produttivi. In questo modo la flessibilità organizzativa viene di fatto lasciata alla libera contrattazione delle parti, mentre probabilmente sarebbe stato opportuno prevedere procedure di mediazione ad hoc (affidate, ad esempio, a commissioni di esperti nominati dal Consiglio Nazionale dell’Economia e del Lavoro), che tengano conto delle esigenze competitive delle aziende di fronte a un cambiamento tecnologico vivace e alla necessità di affrontare la concorrenza anche estera.

3, Cinquant’anni dopo Lo Statuto ha costituito, nella fase successiva alla sua approvazione, un fondamentale elemento di progresso civile per il paese, realizzando condizioni migliori per la tutela della dignità dei lavoratori. Come tutte le riforme nate sulla base di compromessi tra esigenze in conflitto, anche lo Statuto dei lavoratori, per quanto abbia retto assai bene al vaglio del tempo, si è trovato e si trova ad affrontare tensioni di varia natura: i cambiamenti nella tecnologia – con la transizione dalle fabbriche fordiste tradizionali all’industria 4.0, il declino dell’occupazione industriale e la crescita di quella nei servizi – richiedono flessibilità organizzativa nei processi lavorativi e modificano almeno in parte la natura stessa dei problemi da affrontare; i cambiamenti nella cultura politica in senso lato, con lo sviluppo della cultura neoliberista, pongono in dubbio le fondamenta analitiche dello Statuto e richiedono non solo risposte teoriche – che per la verità vari economisti hanno dato, e del tutto convincenti – ma anche la loro valorizzazione nei dibattiti tra i non economisti, con giuristi e politici in particolare.

Una migliore comprensione dei fondamenti valoriali, giuridici, economici e politici dello Statuto è condizione necessaria per una sua continua vitalità, pur con i necessari cambiamenti. Una rivitalizzazione dello Statuto potrebbe anzi costituire l’avvio di una nuova stagione di riforme. Un elemento importante di cui tenere conto in questo senso è la globalizzazione, con la crescente importanza della concorrenza tra sistemi economici basata su sistemi tributari (e quindi di welfare state) più leggeri, su regolamentazione ambientale e di sicurezza sul lavoro più lassista, e anche su un mercato del lavoro più squilibrato a favore dei datori di lavoro. Si pensi a un sistema come quello ungherese, nel quale il lavoratore deve pagare, e parecchio, per A. Roncaglia 9 Moneta e Credito potersi licenziare: un capovolgimento rispetto al nostro Statuto, ma che certo ha attirato verso l’Ungheria, negli ultimi anni, gli investimenti diretti di molte imprese tedesche.

Quando dovremo affrontare i costi economici della pandemia Covid-19, che saranno assai pesanti, sarà essenziale evitare di farlo in un contesto internazionale frammentato, di concorrenza regolamentare di tutti contro tutti, che comporterebbe un arretramento di civiltà e un aumento delle diseguaglianze che alla lunga potrebbe rivelarsi insostenibile per regimi politici democratici quali quelli in cui viviamo. La ricerca di un level playing field – da portare avanti innanzitutto nell’Unione europea, eventualmente attraverso lo strumento della cooperazione rafforzata – costituisce una premessa per un aggiornamento dello Statuto dei lavoratori che rappresenti un miglioramento nella sua efficacia e non un arretramento alla situazione di sessant’anni fa.

La situazione politica che ha condizionato la forma assunta dallo Statuto dei lavoratori – la necessità di ottenere il voto democristiano in Parlamento e, allo stesso tempo, di evitare l’ostruzionismo parlamentare da parte sia del PCI sia dei partiti di centro-destra – è illustrata dalla relazione di Gianfranco Pasquino (2021), in questo volume. Altre relazioni, pubblicate di seguito, discutono la struttura giuridica della legge (Sciarra, 2021), le sue implicazioni economiche, in particolare per l’occupazione (Simonazzi, 2021), l’evoluzione che la legge ha 6 Lavoro costrittivo e dignità del lavoro Moneta e Credito subito nei cinquant’anni successivi alla sua approvazione (Santoro-Passarelli, 2021, per gli aspetti giuridici; Regalia, 2021, per quelli sociali e politici).

Riferimenti bibliografici

Pasquino A. (2021), “Inquadrare lo Statuto dei lavoratori nei suoi tempi”, Moneta e Credito, 74 (293), pp. 27-33.
Regalia I. (2021), “Evoluzione della società e della politica in Italia e Statuto dei lavoratori”, Moneta e Credito, 74 (293), pp. 71-86.
Santoro-Passarelli G. (2021), “Lavori, dignità e tutele dallo Statuto dei lavoratori ai giorni nostri”, Moneta e Credito, 74 (293), pp. 35-57.Sciarra S. (2021), “Diritti e poteri nei luoghi di lavoro. Una lettura dello Statuto dei lavoratori nel tempo della pandemia”, Moneta e Credito, 74 (293), pp. 11-25.
Simonazzi A. (2021), “Dignità del lavoro e piena occupazione”, Moneta e Credito, 74 (293), pp. 59-70
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(L'articolo è tratto dal saggio pubblicato su "Moneta e Credito" V. 74, N. 293 (2021) col titolo "Lavoro costrittivo e dignità del lavoro (Constrictive labour and the dignity of work)" - Contributo al convegno "Lo Statuto dei lavoratori compie cinquant'anni")

Alessandro Roncaglia
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