Austerità e debito pubblico in Italia

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Sulla base dell'analisi del governatore della Banca d'Italia, sembra corretto affermare che l'elevato debito italiano è dovuto principalmente alle politiche di austerità decise dall'Unione Europea, non a un comportamento irresponsabile deke cocale italiane.

L’inizio dell’estate nell’area euro sembra avvenire sotto condizioni favorevoli. I risultati delle elezioni francesi piacciono ai mercati finanziari, né sono attese sorprese dalle elezioni tedesche in autunno. L’endemica crisi greca troverà una soluzione temporanea, che metterà la polvere sotto il tappeto. Anche in Portogallo l’economia sta rispondendo bene ad una politica economica del governo di sinistra, e lo spread è sceso nettamente sotto i 300 punti base. Ma Grecia e Portogallo sono paesi piccoli; l’Italia al contrario è il terzo paese dell’area euro e, nel caso di crisi, il suo debito non può essere oggetto di salvataggi da parte del fondo europeo di salvataggio (ESM).

Ignazio Visco, Governatore della Banca d’Italia, nella Relazione annuale del 31 maggio afferma: ”(i)l rapporto tra debito pubblico e Pil è su livelli elevati da oltre trent’anni. Nonostante la riduzione avviata a metà degli anni Novanta, all’inizio della crisi era ancora prossimo al 100 per cento; è aumentato rapidamente dal 2008, fino a superare il 130 per cento.

Dal 2008 l’incremento del rapporto tra debito e PIL è stato essenzialmente determinato dalla dinamica sfavorevole di quest’ultimo. Se il prodotto fosse cresciuto in termini reali al tasso medio, pur contenuto, degli anni compresi tra l’avvio dell’Unione economica e monetaria e l’inizio della crisi finanziaria e se l’aumento del deflatore fosse stato in linea con l’obiettivo di inflazione della BCE, per il solo effetto di un denominatore più elevato il rapporto tra debito e prodotto sarebbe oggi analogo a quello del 2007”.

Sono parole condivisibili: l’alto debito italiano è dovuto esclusivamente alla crisi finanziaria, e alle politiche di austerità decise dall’Unione Europea, non ad un irresponsabile comportamento delle cicale italiane. Ora è chiaro che un debito così alto, anche in termini assoluti (oltre duemila miliardi di euro) è un problema. Che fare dunque? Secondo Visco “(u)n impegno costante e prolungato nel controllo dei conti pubblici è la condizione necessaria per ridurre durevolmente il rapporto tra debito e prodotto in un contesto di stabile ritorno alla crescita. Ne deriverebbero effetti positivi sul clima di fiducia, sull’attività economica e sulla spesa per interessi”.

Qui nascono dei problemi. Negli ultimi tre anni, nei quali l’attività economica è leggermente migliorata, l’avanzo primario ha oscillato intorno a 1,5%. Per arrivare al 4% occorre aumentare di 2,5 punti percentuali. Perché no? Nel 2000 l’avanzo primario sfiorò il 5% (4,8%, il valore massimo del periodo 1995-2000), il tasso di crescita fu del 2,7%, il maggiore di tutti gli ultimi venti anni, il deficit complessivo scese a 1,3%, e il debito pubblico diminuì di 4,6 punti percentuali.

D’altra parte, alla fine del 2011. il governo Monti vara una manovra lacrime e sangue per fermare la speculazione finanziaria che aveva fatto arrivare lo spread italiano a oltre 600 punti base. La manovra, ufficialmente denominata “Salva Italia”, consisteva di tagli di spesa ed aumenti di imposte per oltre il 4% del PIL. Ma l’aumento del saldo primario fu solo di 1,3% (da 0,95% del 2011 a 2,25% del 2012). Infatti PIL cade e come risultato il rapporto debito pubblico – PIL aumentò di sei punti percentuali.  Per precisione il PIL cominciò a scendere a metà del 2011, continuando per tutto il 2012 e l’inizio del 2013, rimanendo piatto fino a tutto il 2014.

Così Visco descrive lo scarto tra le previsioni iniziali e il risultato complessivo del biennio 2012-13: “In Italia le condizioni macroeconomiche si deterioravano rapidamente, ben oltre le proiezioni nostre e dei principali organismi internazionali. Per il biennio 2012-13, a gennaio del 2012 prevedevamo un calo del prodotto dell’1,5 per cento (dello 0,4 in uno scenario meno sfavorevole); in estate la stima della riduzione passava al 2,2 per cento; a consuntivo si registrava una diminuzione del 4,5 per cento. Al risultato contribuivano la decelerazione del commercio internazionale e il crollo della fiducia nelle prospettive dell’area dell’euro, che amplificavano gli effetti della stretta creditizia e della correzione di bilancio”.

Il confronto tra questi due episodi sembra suggerire che se il saldo primario è il risultato di una buona crescita economica, allora il rapporto debito-PIL scende, anche significativamente, senza neppure bisogno di un avanzo primario (vedi il caso spagnolo Clericetti:-spagna.pdf--www.insightweb.it.). Se invece, in una situazione di crescita assente o anemica, si cerca di ottenere il risultato attraverso le manovre restrittive di bilancio, si può ottenere un aumento dell’avanzo primario, ma pagando il prezzo di una diminuzione del PIL, con la conseguenza di non ottenere il risultato sperato, cioè la diminuzione del rapporto debito-PIL.

L’Italia si trova in una situazione difficile, in cui un governo audace potrebbe puntare ad aumentare, non diminuire il deficit, con una manovra di una ventina di miliardi di investimenti in manutenzione del territorio, scuola e ricerca. Venti miliardi per almeno un triennio è quanto ragionevolmente si può sperare di investire realmente; di più è quasi sicuramente impossibile, non per le minacce di procedura di infrazione di Bruxelles, ma per le difficoltà della macchina amministrativa.

Una volta rilanciata la crescita, con un aumento finale modesto del deficit, perché queste spese d’investimento si autofinanziano quasi completamente nel triennio, si potrà beneficiare degli effetti automatici di riduzione del deficit, e quindi di riduzione del rapporto debito-PIL.

Purtroppo le principali forze politiche in Italia sono concentrati su un ottica elettorale che non supera l’anno, e che consiste in una schermaglia che ricorda il gioco del pollo: “non sono io che voglio misure impopolari, sei tu; io sono contrario agli immigrati più di te”. I mercati hanno temporaneamente apprezzato il fatto che si andrà a votare a scadenza naturale nel 2018 (ma manca ancora la legge elettorale) e che il M5S, populista per definizione, abbia avuto una battuta di arresto alle recenti (e parziali) elezioni amministrative; lo spread è sceso di trenta punti base, riportando il tasso decennale sotto il 2%,  

Ma ci sono ragioni per cui seriamente preoccuparsi di ciò che potrebbe accadere nella prossima primavera, tra il sostanzial mantenimento della politica di austerità europea e l'approssimnarsi della fine del quantitativ easing..

Ruggero Paladini

Economist - Professor of "Scienza delle Finanze" at University "La Sapienza" Roma; Member of the Economic Board of Insight - ruggero.paladini@uniroma1.it