Berlusconi for ever

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Dopo il suo stupefacente ritorno alla testa della poltica italiana con la "Grande Coalizione", il Cavaliere punta direttamente al Quirinale mediante una riforma costituzionale in senso semipresidenzialista.

Nella sua breve quanto significativa dichiarazione appena dopo l’annuncio della costituzione del governo Letta, Giorgio Napolitano ha tenuto ad affermare che si tratta di un governo politico, il che sarebbe ovvio se non si volesse precisare che non si debba parlare di un “governo del Presidente”.  Se si tratta di rinunciare a una formula, si può fare. Ma ciò non toglie che si tratti di un governo che non si sarebbe costituito senza la determinazione di Napolitano. Senza il suo forte e inusuale discorso al Parlamento, nel quale indicava la maggioranza e l’asse del programma sui quali si sarebbe dovuto fondare il governo, e senza la non velata minaccia di denunciare le eventuali resistenze di fronte al paese.

Ora, comunque si definisca il neonato governo, vale la pena di fare due considerazioni sull’antefatto politico e sui suoi possibili effetti collaterali di tipo istituzionale. Sul primo punto bisognerà ricordare che la formazione del governo Letta, vicesegretario del Pd, è il rovesciamento della prospettiva nella quale si era mosso Bersani, fino all’altro giorno segretario del partito, ostinatamente contrario, ma non senza ragioni, a una Grande coalizione col Pdl di Berlusconi. Se avesse ceduto su questo punto avrebbe potuto tranquillamente, con soddisfazione di Napolitano e col sostegno di Berlusconi, porsi a capo del governo. Avendo rifiutato questa possibilità, la sua linea è stata sconfitta, e Bersani ha accettato con lealtà l’ostracismo che colpiva i generali sconfitti dell’antica Grecia. La sua sorte sarà presto dimenticata, e ciò che rimane sono le devastanti difficoltà che la formazione del governo col Pdl ha creato o esasperato nel Pd, che già aveva dato prova della sua inconsistenza dissipando la possibilità di portare al Quirinale prima Marini, poi Prodi e, in ultima istanza, Rodotà.

Con un’analisi improntata a un britannico distacco, Anatole Kalesky, autorevole commentatore dell’International Herald Tribune ha scritto: “Apparentemente  i vincitori sono stati Giorgio Napolitano e il suo nuovo primo ministro Enrico Letta… In effetti, il vero vincitore è stato Silvio Berlusconi riemerso come la figura dominante della politica italiana.. (Il governo) sarà soggetto a perdere la fiducia in qualsiasi momento Berlusconi riterrà che siano assunte misure in contrasto con i suoi interessi personali o la sua strategia politica”. Una diagnosi apparentemente brutale, ma sfortunatamente realistica.

Ma qui conviene spendere qualche parola sul secondo punto, i possibili “effetti collaterali” della formazione di questo governo (del Presidente). Molti commentatori hanno esaltato il ruolo salvifico di Napolitano, alludendo (anche se talvolta per negarlo, come ha fatto Andrea Manzella su Repubblica) all’impronta di un tendenziale cambiamento verso un regime semipresidenziale alla francese. Ma l’evoluzione del ruolo del Presidente è del tutto evidente. E non è più peregrina l’idea di legittimare questo ruolo attraverso l’elezione del Presidente della Repubblica, seguendo il modello francese con voto diretto popolare a doppio turno. Sistema che del resto anche la sinistra propone per l’elezione dei membri del Parlamento. Nell’insieme un modo di stabilizzare l’incompiuto bipolarismo all’italiana e, di fronte agli ultimi risultati elettorali, liquidare il potere d’interdizione che un quarto degli elettori italiani ha attribuito al movimento di Grillo.

La soluzione presidenzialista è per il centro destra la madre di tutte le riforme costituzionali. A maggio di un anno fa Berlusconi e Alfano avevano avanzato la proposta del semipresidenzialismo come “l’atto fondativo della terza Repubblica”. E Giovanni Sartori scriveva: “Improvvisamente Berlusconi (che di fiuto ne ha da vendere e che non si rassegna certo a stare in panchina) tira fuori dal cappello il modello francese: un sistema elettorale a doppio turno coronato da un semipresidenzialismo”. Indubbiamente, dopo le vicende post-elettorali, il disegno presidenzialista risulta fortemente rafforzato.

Il prototipo del semipresidenzialismo, al quale si riferisce la destra berlusconiana, deve essere individuato nella V Repubblica francese. Era la fine degli anni Cinquanta quando, di fronte alla dissoluzione del sistema dei partiti della IV Repubblica, fu chiamato alla testa del governo Charles De Gaulle che ebbe il merito di porre termine con i negoziati di Evian alla guerra d’Algeria, promuovendo l’indipendenza dell’ultima colonia francese. Ma proprio perché il suo ruolo non rimanesse ambiguamente legato a uno stato di eccezione, nel 1962 fu approvato un referendum che, con uno straripante consenso popolare, instaurò il regime semipresidenziale della V Repubblica. Oggi non c’è in Italia una situazione di emergenza dettata da una guerra coloniale, ma il sistema dei partiti è frantumato e le condizioni economiche e sociali hanno raggiunto un livello di gravità senza precedenti nel dopo-guerra. E un referendum popolare a sostegno di una modifica costituzionale potrebbe dare un esito favorevole al passaggio verso un sistema analogo a quello francese.

Che la destra punti verso questa modifica non è un mistero. Nel ballottaggio del secondo turno, il centrodestra ha il vantaggio di una maggiore capacità di unificazione dell’elettorato moderato e di attrarre il consenso delle oligarchie dominanti. Non a caso, in Francia nei primi 50 anni della V Repubblica, fra il 1962 e il 2012, prima della elezione di Francois Hollande, sei presidenti su sette sono stati di centrodestra. In Italia la sinistra non ha mai brillato per la capacità di presentarsi unita. E questa possibilità si è fatta del tutto evanescente una volta che, con il governo delle larghe intese, l’unica opposizione a Berlusconi è rimasta nelle mani delle Cinque stelle che hanno già saccheggiato alcuni milioni di voti che appartenevano al Pd.

Certo, oggi è il momento della bonaccia, e prevale l’entusiasmo di Scalfari per l’inatteso eldorado del governo Napolitano-Letta. Una svolta di 180 gradi rispetto a qualche settimana fa quando la crisi italiana veniva paragonata a quella della Repubblica di Weimar. Un paragone, in verità, enfatico e infondato. Non abbiamo perduto una guerra, e il problema è la disgregazione del sistema dei partiti, a cominciare dalla sinistra,  in analogia a quanto accadde alla IV Repubblica francese.

Allora, come abbiamo visto, fu chiamato il generale De Gaulle che si era ritirato in una sperduta residenza lontana dalla capitale, il piccolo villaggio di Colombey-les-Deux-Eglises. A noi è bastato fare appello a Giorgio Napolitano perché rinunciasse a tornare a un’agognata vita privata. Ma per il redivivo Silvio l'iniziativa di Napolitano è l'occasione per rilanciare il suo progetto presidenzialista come l'ultima frontiera per un attacco decisivo al centrosinistra. Non a caso, ha imposto Quagliariello al dicastero delle riforme istituzionali, dove transiteranno e prenderanno forma le proposte di modifica della Costituzione. Insieme con un sistema elettorale a doppio turno per l'elezione del Parlamento il semipresidenzialismo è nei fatti tornato alla ribalta. E, se prima i tribunali non avranno deliberato la sua interdizione da ogni carica pubblica – cosa non impossibile ma, come insegna una lunga esperienza, improbabile - Berlusconi potrà ancora coltivare la speranza di trasformare l’incubo del carcere nel sogno del Quirinale