Bersani e l'eurotrappola del Professore

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Il centrosinistra vincerà le elezioni, ma i vincoli europei ereditati dal governo Monti, renderanno difficile la sua missione. Solo nuove alleanze in Europa consentiranno di sfidare l'egemonia tedesca e trovare una via d'uscita dalla crisi dell'eurozona.

La maggiore novità delle elezioni generali che si terranno il 24-25 febbraio in Italia è che la destra appare sconfitta in partenza. La vittoria spetterà al centro-sinistra che per la prima volta presenta come candidato premier il segretario del Partito democratico, Pier Luigi Bersani. Le destre e il centro sperano che il Pd non realizzi la maggioranza assoluta anche al Senato, ma, anche in questo caso, la direzione del governo spetterà al Partito democratico in quanto primo partito con la maggioranza dei seggi nei due rami del Parlamento.

Monti fu chiamato per coprire il buco lasciato dall’incredibile Berlusconi. Oggi una parte della destra del paese lo chiama ad ergere una barriera di fronte alla vittoria elettorale annunciata del centro-sinistra. Non può meravigliare, da questo punto di vista, che la sfida che conta per l’improvvisata coalizione  del Professore non è con la destra leghista di Berlusconi ma con il Pd. Bersani ha scelto la tattica del fair-play, ma non può ignorare questa circostanza e darsene una ragione. 

Il nuovo governo si troverà a operare su un campo minato. L’Italia che lascia in eredità Monti è il paese con la peggiore recessione nell’eurozona, eccettuata la Grecia. Il 2013 sarà ancora, secondo le previsioni, un anno di recessione, con una pallida ripresa prevista per il 2014 inferiore a un punto percentuale. In sostanza, la più lunga recessione da mezzo secolo a questa parte. E’ il prezzo che paghiamo per il pareggio del bilancio nel 2013, un obiettivo paradossale la cui realizzazione non è stata imposta a nessun altro paese dell’eurozona.

Se solo il pareggio del bilancio fosse stato dilazionato fino al 2014 (in Francia è previsto per il 2017), sarebbero stati disponibili  almeno venti miliardi per adottare misure antirecessive come, a titolo di esempio, investimenti pubblici di rapida attuazione nelle opere di manutenzione, il pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione verso le piccole e medie imprese, la riduzione del peso dell’Imu per la prima casa sui ceti meno abbienti.

Dietro l’aridità di questi numeri, c’è la crescita esplosiva della disoccupazione. In primo luogo dei giovani, ma con una novità: la disoccupazione colpisce ormai indistintamente anche le madri e i padri non più giovani. La contrabbandata  unificazione del mercato del lavoro promette di realizzarsi all’insegna non della riduzione della precarietà per i più giovani, ma sul principio della “precarietà per tutti”!  E’ la nuova equità contemplata dall’aggressivo riformismo che evoca l’Agenda Monti quando attacca la Fiom, la Cgil e i “conservatori” di sinistra che si annidano nel Partito democratico, del quale il professore apprezza soprattutto i transfughi, come Ichino trionfalmente approdato sulla sponda della destra in coerenza con la sua lungamente mascherata vocazione.

Il governo dimissionario ha avuto in Monti un politico di stile “europeo”, apprezzabile rispetto al suo predecessore di cui ci si poteva solo vergognare. Ma detto questo, di cui pure ci siamo inizialmente compiaciuti, sappiamo anche che è stato l’esecutore testamentario del peggiore lascito del governo Berlusconi, sintetizzato nella famigerata lettera dell’estate del 2011 proveniente dalla Bce ma, per molti indizi convergenti, confezionata in Italia.

Tra i lasciti del governo Monti sarà ricordata la sciagurata riforma delle pensioni che, mentre cresce l’inflazione, deindicizza buona parte delle pensioni in essere, e crea un esercito di centinaia di migliaia di lavoratori che nel corso dei prossimi anni sono destinati a rimanere senza lavoro e senza pensione. Per non parlare degli interventi sui diritti dei lavoratori, dove oltre allo svuotamento dell’art.18, diretto a facilitare i licenziamenti, abbiamo assistito al sostegno, questo veramente indecente, del capo del governo alla politica di disintegrazione della  contrattazione collettiva e di discriminazione sindacale di Marchionne.

Si dirà: tutto vero, ma Monti ha salvato l’Italia mettendo sotto controllo lo spread. A forza di ripeterlo, non so quanti finiranno col credere a questa sua virtù salvifica. Ma chiunque abbia gli occhi aperti sa che la riduzione dello spread riguarda tutti i paesi del’eurozona. E’ diminuita nella stessa proporzione in Spagna, che pure ha un disavanzo di bilancio più che doppio rispetto all’Italia.
 
La riduzione dello spread è il risultato della politica di Mario Draghi che, rompendo con la Bundesbank,  ha garantito alle banche  crediti illimitati , consentendogli di acquistare in piena sicurezza i titoli sovrani e migliorare i loro bilanci, lucrando la differenza fra i tassi dei titoli di Stato e i prestiti all’1 per cento contratti con la Banca centrale. Un intervento di politica monetaria che, per alcuni aspetti, ha allineato la Bce alla linea della Fed, la Banca centrale americana. Ma con una differenza sostanziale: Ben Bernanke ha garantito che la politica monetaria iper-espansiva della Fed continuerà fino a quando il tasso di disoccupazione non sarà sceso al 6 per cento.

Mario Draghi ha, al contraio, posto come condizione la continuità e l’approfondimento della politica di austerità e riforme strutturali, alle quali dobbiamo un tasso di disoccupazione prossimo al doppio rispetto al traguardo posto da Bernanke. Chi farà la storia di questa gestione della crisi ne rimarrà stupito e sconcertato. Naturalmente sappiamo che dietro Draghi c’è Wolfgang Schäuble, il potente ministro delle Finanze tedesco. Ma questo non cambia lo stato dell’arte. Non cambia il fatto che dopo aver paragonato la crisi del 2008 a quella del ’29, si segue nell’eurozona la politica di Herbert Hoover, oscurando l’esperienza di Franklin Roosevelt e gli insegnamenti di Keynes.

Il risultato è un cane che si morde la coda. L’austerità e le riforme strutturali, consacrate nel Fiscal compact,  inibiscono la crescita, lasciando i paesi in difficoltà alla mercé dei mercati finanziari. “Il fiscal compact – osserva Jo Stiglitz – non è una soluzione, e gli acquisti del debito sovrano da parte della Banca centrale sono un palliativo temporaneo. Se la Bce impone ulteriori condizioni di austerità (come sembra chiedere alla Grecia e alla Spagna) in cambio del finanziamento, la cura non potrà che peggiorare la condizione del paziente” . I fatti sembrano confermare  la prognosi.

Il confronto con gli Stati Uniti è istruttivo. L’America è alle prese con la minaccia incombente del  fiscal cliff, e Obama si muove per scongiurarla, pur dovendo fare i conti con un’opposizione repubblicana fondamentalmente reazionaria. Le autorità dell’eurozona, sotto l’egemonia tedesca, si comportano come i repubblicani in America. L’eurozona vive stabilmente in una situazione di fiscal cliff strisciante, fatto di aumento di tasse e riduzione della spesa pubblica.
 
Non può essere un caso se alla fine del 2012, cinque anni dopo lo scoppio della crisi, il Pil dell’eurozona non ha ancora raggiunto il livello pre-crisi. E, secondo le previsioni più accreditate, nei prossimi cinque anni la crescita annua media si aggirerà intorno all’1 per cento. Al confronto gli Stati Uniti, che pure sono stati all’origine della crisi, avevano già recuperato a metà del 2011 il livello di reddito pre-crisi, e per il prossimo quinquennio prevedono una crescita media doppia rispetto all’eurozona. In complesso un decennio perduto per l’eurozona e un inarrestabile declino dell’Europa nella geografia della globalizzazione.

Sia pure gravato da questi pesanti handicap, il governo di centrosinistra avrà, tuttavia, dalla sua parte una condizione di cui poco si discute e nella quale si aprono spazi importanti di iniziativa. La crisi italiana incrocia la crisi dell’eurozona e ne condiziona gli esiti. Delle banche è stato detto, troppo grandi per poterle lasciare fallire. L’Italia non può essere lasciata alla deriva, senza l’implosione dell’intero euro-sistema.

Il destino della Grecia appare segnato. ll suo debito che era inferiore al 120 percento de Pil oggi è al  170, mentre la popolazione è ridotta alla disperazione. La Spagna, diretta da un governo di destra benvoluto in Europa,  è allo stremo con oltre il 26 per cento di disoccupazione. L’interrogativo più rilevante riguarda la Francia di François Hollande. Per ora rimane in equilibrio, ma è un equilibrio precario. Hollande non può reggere a lungo la politica di letale austerità imposta da Berlino. In un recente sondaggio oltre il 60 per cento dei francesi  ha dichiarato di rimpiangere il franco, e fra questi spicca la maggioranza degli elettori dell’Ump e del Partito socialista che, con Delors e Mitterrand, fu alla guida della costruzione dell’euro.

La politica europea è fallimentare e deve essere messa in discussione. Angela Merkel si avvia a vincere con ampio margine, secondo i sondaggi, la sfida con la Spd. Che governi con i Verdi o riproponga la Grande coalizione con i socialdemocratici, difficilmente  muterà la politica egemonica tedesca. La crisi dell’eurozona tocca in questa fase anche la Germania, ma non le toglie il vantaggio di essere una grande potenza industriale con un enorme surplus commerciale, sempre più legato alle aree in più rapido sviluppo della Cina e del resto del mondo.

Il confronto con la Germania sulle politiche dell’eurozona sarà inevitabile. E il suo esito dipenderà dai rapporti che si stabiliranno nell’eurozona, innanzitutto tra la Francia, l’Italia e la Spagna. Non a caso, la domanda che tutti conoscono ma che un mal posto pudore lascia inespressa è se l’eurozona possa sopravvivere a una politica economicamente fallimentare e socialmente antipopolare che  colpisce in profondità la Spagna e l’Italia e minaccia da vicino la Francia. Il buon senso dice che è una situazione che non può durare. Il governo di centrosinistra che si annuncia in Italia dovrà fare i conti con i vincoli che erediterà dal governo Monti. Ma non può rimanervi impigliato senza condannarsi alla sorte già sperimentata dai capi di governo che si sono succeduti negli ultimi anni in tutti i paesi in crisi del sud dell’eurozona. Uscire in campo aperto, riaprire la discussione sulla politica europea dovrà essere considerato un compito necessario e urgente.

(da Eguaglianza& Libertà - www.eguaglianzaeliberta.it)