Chi ha sbagliato le strategie antivirus

Sottotitolo: 
Le diverse risposte politiche nella lotta contro le conseguenze economiche della pandemia. I casi della Cina, del Giappone e degli Stati Uniti. Le decisioni europee e il discutibile approccio in Italia e Spagna.

La pandemia generata dal coronavirus ha messo in crisi paesi sparsi in tutto il pianeta. L’allarme suscitato non può stupire. Si sono verificate altre epidemie nel corso dell’ultimo secolo, ma in generale hanno avuto un impatto geograficamente limitato. La pandemia del nuovo coronavirus ha secondo gli esperti un solo devastante precedente nella crisi che colpì l’intero pianeta con l’infezione che fu definita “Spagnola” benché non fosse originata in Spagna ma negli stati Uniti. Si trattò in ogni caso di un'immane tragedia. L’epidemia causò fra cinquanta e cento milioni di morti in un tempo i cui gli abitanti del pianeta erano intorno a due miliardi, circa un quarto degli attuali.

Il confronto ci aiuta a realizzare il rischio che comporta una pandemia che si estende a livello globale senza che si sia in grado di conoscere con precisione la natura del virus e il modo di eradicarlo. Tuttavia, le speranze di averne ragione non mancano. In Russia e in Cina si proclama l’individuazione di un vaccino già in corso di sperimentazione con risultati promettenti. Altri vaccini si annunciano sulla base delle ricerche in corso in Europa e Stati Uniti.

Cina e Stati Uniti

Quale che sia l’auspicabile futuro di un vaccino efficace, il coronavirus ha già provocato conseguenze economiche, sociali e umane disastrose. I governi hanno messo in atto interventi poderosi, sia pure con esiti finora diversi. Il caso della Cina, la prima essere colpita, è significativo.  Sia pure accusata di aver colpevolmente rivelato in ritardo la natura del virus all’origine della pandemia, la Cina ha mostrato una capacità d’intervento che per l’intensità e la rapidità, ha consentito di fermare in meno di tre mesi la pandemia a Wuhan, nella provincia di Hubei dove per prima è comparsa provocando la perdita di circa 5000 vite umane.

Se non vi saranno gravi recrudescenze, il paese potrà chiudere l’anno, secondo le previsioni del FMI, con una crescita del reddito nazionale prossima al 2 per cento, ponendosi come l’unico paese che ha fronteggiato la crisi senza subire un crollo dell’economia. Indubbiamente, la natura centralizzata del regime ha influito sulla tempestività e la risolutezza dell’intervento, arrestando la diffusione della pandemia.

Molto diverso si presenta il caso degli Stati Uniti. Dopo i primi tentennamenti di Donald Trump, il Partito democratico ha imposto un intervento pubblico di straordinarie dimensioni nella misura di tremila miliardi di dollari, pari al 13 per cento del reddito nazionale. Le risorse messe in campo hanno consentito la distribuzione di 600 dollari settimanali anche a beneficio di chi già fruiva di un’indennità di disoccupazione. Era, in un certo senso, come lanciare da un elicottero, secondo la famosa ricetta di Milton Friedman, una grande quantità di dollari da spendere per rilanciare i consumi e la produzione. Ma l’operazione, che in un diverso apparato teorico era stata in passato suggerita anche da Keynes, si è rivelata deludente. Quando, a fine luglio, la generosa distribuzione di dollari ha avuto termine, milioni di americani erano ancora disoccupati e senza salario.

I democratici, guidati da Nancy Pelosi, presidente della  Camera dei Rappresentanti, aveva fatto varare un nuovo intervento di raddoppio di tre mila miliardi, ma il Senato, a maggioranza repubblicana, lo aveva bloccato. L’audace terapia basata sulla distribuzione di denaro diretta all’aumento della domanda di consumi come motore della ripresa, è rimasta a mezz’aria. La disoccupazione si attesta sopra il 10 per cento, la più grave della storia americana dopo la Grande Depressione dei primi anni Trenta. E Il futuro rimane incerto affidato al risultato delle elezioni presidenziali di novembre, quando i Democratici sperano di sloggiare dalla Casa Bianca Trump sostituendolo con Joe Biden, un leader per molti versi modesto ma dotato di una lunga esperienza politica come membro pluridecennale del Congresso e poi vicepresidente di Barack Obama.

Può sembrare strano, ma una visione ideologica dell’organizzazione sociale e delle libertà individuali si è manifestata vigorosamente anche al cospetto del coronavirus e ai suoi effetti devastanti, come dimostrano le opposte esperienze delle due maggiori potenze del mondo contemporaneo.

Giappone

Nel resto del mondo sviluppato stiamo assistendo a esperienze diverse ma che nell’insieme possiamo definire più pragmatiche.

Il caso del Giappone, la terza potenza economica a livello globale, offre un esempio illuminante per l’estensione e la rapidità dell’intervento del governo per disinnescare la diffusione della pandemia. Nella conferenza stampa del 7 aprile l’intervento fu illustrato con poche e semplici parole dal primo ministro Shinzō Abe. "L’economia giapponese- affermò - sta affrontando la crisi più grave dopo la seconda guerra mondiale…Il governo ha deciso un investimento pari a un quinto del reddito nazionale” In sostanza, una spesa immediata – da sottolineare immediata - pari a 1000 miliardi di dollari, Per dare un significato concreto alla cifra è come investire in Italia, con una popolazione che è la metà di quella giapponese, circa 400 miliardi di euro.

Shinzō Abe si è dimesso a fine agosto per ragioni di salute dopo otto anni alla direzione del governo segnando il più lungo premierato della storia giapponese. La dimensione dell’intervento messo in atto rimane una testimonianza della straordinarietà delle misure adottate per contrastare le devastanti conseguenze della pandemia, la cui diffusione è stata tra le più basse finora sperimentate con una limitata perdita di vite umane.

Cina, Stati Uniti e Giappone mostrano tre modelli diversi d’intervento pubblico che riflettono modelli ideologici diversi alla base dell’azione poltica. In ogni caso, accomunati da una forte impronta e determinazione degli Stati nazionali e dei rispettivi governi pur in un quadro politico profondamente diverso.

L’esperienza europea

Le esperienze di due grandi paesi europei - Gran Bretagna e Germania – testimoniano esempi diversi, ma ugualmente significativi. Il caso britannico è un esempio di oscillazione nell’interpretazione del problema e nei rimedi per farvi fronte. Inizialmente, assistiamo a una sottovalutazione che riflette un atteggiamento di non-chalance del neo-premier Boris Johnson: la pandemia ha conseguenze inevitabili e seminerà vittime trai soggetti più fragili, come nel caso delle persone anziane, ma il virus tenderà a esaurire la sua carica via via che le persone avranno accumulato gli anticorpi necessari.

E’ il modello di analisi prevalente in Svezia. Ma è una convinzione messa a dura prova dal fatto che proprio Johnson è stato colpito dal coronavirus. Il premier è stato costretto a un ricovero d’urgenza e il funzionamento polmonare si è rivelato gravemente compromesso. E’ un’esperienza dirompente. Anche una persona relativamente giovane (Johnson ha 57 anni ed è in buona salute) può dunque incorrere in un rischio letale.

La sgradevole e pericolosa esperienza gli fa radicalmente cambiare idea. Di fronte ai dati del secondo trimestre che segnano l’aggravarsi della pandemia e il crollo dell’economia, Johnson annuncia un intervento pubblico diretto di 170 miliardi di sterline. Più estesi sono gli interventi pubblici nel loro insieme. “La Gran Bretagna- scrive il Financial Times – si avvia a creare un deficit il cui livello si è visto solo durante le due guerre mondiali. “Il governo spenderà almeno 350 miliardi…nel tentativo di limitate i danni economici derivanti dalla pandemia…La differenza fra la spesa e le entrate si ridurrà con la ripresa economica che comporterà una crescita dell’Iva e delle imposte sul reddito” (How best to shink UK’s post- coronavirus deficit (Editoriale, 11-12 luglio 2020).

Con la nuova linea il governo annuncia grandi investimenti in opere pubbliche, strade, ponti, ferrovie, e nelle regioni più povere del paese. Il clamoroso cambiamento di rotta stupisce la parte più tradizionalista del Partito conservatore. Il Partito laburista è disarmato e, forse, dovrebbe rimpiangere l’autolesionista accanimento col quale ha contrastato la leadership di Jeremy Corbyn, esponente radicale della sinistra laburista, fino alla sonora sconfitta subita dal partito nelle elezioni di fine autunno.

Nella Germania di Angela Merkel nulla è affidato al caso. L’intervento pubblico assume subito una dimensione del tutto eccezionale nella tradizione tedesca. Il governo federale investe con effetti immediati 130 miliardi a sostegno dell’occupazione e delle imprese. Ma l’intervento pubblico complessivo a carico del bilancio raggiunge 284 miliardi (8,3 per cento del reddito nazionale) per spese prevalentemente previste per l’anno in corso con un prolungamento di alcune nel 2021.(Bruegel, “The fiscal response to the economic fallout from the coronavirus”,05 August 2020).  L’impegno è di gran lunga il più alto nell’Unione europea, sostanzialmente equivalente a quello britannico e, in percentuale del PIL, più che doppio rispetto a quello italiano.

Il limite del disavanzo pubblico è provvisoriamente abbassato dal 19 al 16 per cento.  Il part time è largamente adottato come alternativa ai licenziamenti. Cinquanta miliardi sono impegnati per lo sviluppo delle tecnologie avanzate come l’energia dall’idrogeno e l’intelligenza artificiale. Per Peter Altmaier, ministro dell’economia, la Germania sarà la “locomotiva economica” che libererà l’Europa e il mondo dalla crisi del coronavirus.

L’enfasi è evidente.  Ma le previsioni dei maggiori istituti di ricerca in generale concordano. Secondo l’IFO, l’autorevole istituto di ricerca di Monaco, e il Fondo monetario internazionale, la riduzione del PIL alla fine del 2020 oscillerà fra il 5 e il 6 per cento – il livello più basso tra i paesi capitalistici avanzati dopo il Giappone – e, alla fine del 2021, il redito nazionale tornerà ai livelli antecedenti alla crisi.  L’esperienza britannica e quella tedesca, sia pure in contesti diversi, testimoniano la generale assunzione di responsabilità da parte della politica nazionale.

Il caso dell’Italia e della Spagna

L’Italia e la Spagna sono, al pari della Gran Bretagna, tra i paesi più duramente colpiti dalla crisi. Nei primi sei mesi del 2020 il reddito nazionale è calato del 18 per cento in Italia e del 22 per cento in Spagna. La Spagna teme, a sua volta, un’impennata della disoccupazione fino al 25 per cento nella crisi più grave dell’epoca post-franchista. In Italia, la situazione non è più confortante. Per Ignazio Visco, governatore della Banca d’Italia, siamo di fronte al “peggior crollo in tempo di pace dall'Unità d'Italia nel 1861”. (Economic growth and productivity: Italy and the role of knowledge, 4 September, 2020). L’allarme non potrebbe essere più radicale e provenire da una sede più autorevole.

La radicalità della crisi allarma la Francia dove riemerge una vecchia idea coltivata in passato da Mitterrand e Delors. L’Unione europea, o almeno l’eurozona, dovrebbe fronteggiare la crisi più grave della sua storia dotandosi di capitali propri per promuovere investimenti di comune interesse a livello europeo. Emmanuel Macron prova a rilanciare l’idea. Ma la proposta è stata, in effetti, sempre impraticabile per la ferma opposizione della Germania. Gli Stati membri dell’eurozona devono attenersi ai limiti di disavanzo del bilancio pubblico senza fare affidamento sull’europeizzazione di quote del debito nazionale.

La Germania è preoccupata per le difficoltà create dalla pandemia e, in particolare, per il futuro dell’Italia e della Spagna che ne sono particolarmente colpite. La loro crisi metterebbe a repentaglio l’esistenza stessa dell’eurozona. Un intervento diretto a frenare la crisi che pericolosamente investe l’eurozona e, in particolare, i due paesi più importanti dopo la stessa Germania e la Francia è considerato necessario.

La cancelliera, che si avvia al termine del suo quarto mandato, uguagliando il primato di Kohl, avanza una proposta che la Francia difficilmente potrebbe rifiutare. In aggiunta ai 250 miliardi di aiuti già proposti dalla Commissione europea, l’Unione europea raccoglierà sui mercati finanziari altri 500 miliardi da distribuire tra i ventisette paesi dell’Unione in rapporto alla gravità della crisi. Differentemente dalla proposta francese, questa condotta non comporta un mutamento istituzionale. Si tratta, infatti, di una misura eccezionale, una tantum, che non coinvolge l’UE nelle posizioni debitorie degli stati membri.

Sotto la pressione dell’Olanda che capeggia i paesi definiti “frugali”, il rapporto fra le risorse da mettere in campo è modificato: 390 miliardi saranno assegnati come sovvenzioni e 360 come prestiti. I prestiti rimarranno ovviamente a carico degli stati beneficiari. Le risorse dedicate alle sovvenzioni, di cui si fa carico la Commissione europea, saranno rimborsate alle banche creditrici sulla base di nuove entrate comunitarie come, per esempio, imposte da definire. La proposta rivela l’indubbia genialità di Angela Merkel.

I paesi dell’UE rimangono, in parte singolarmente e in parte collettivamente, responsabili della restituzione del debito di 750 miliardi contratto dalla Commissione europea. La Germania conferma l suo ruolo centrale nelle scelte dell’Unione senza doversi caricare di oneri di cui è responsabile ciascuno degli Stati membri. Insomma, il coronavirus non può diventare l’occasione per modificare la struttura dell’Unione europea.

L’entità delle risorse mobilitate non è confrontabile con quelle messe in campo nei paesi che abbiamo menzionato. All’Italia, che sarà la maggiore beneficiaria, saranno assegnati complessivamente 209 miliardi di euro. Per un confronto dobbiamo ricordare che il Giappone, con una popolazione all’incirca doppia, ha previsto un intervento pari a mille miliardi di dollari equivalenti a oltre 400 miliardi di euro per l’Italia. E negli Stati Uniti i Democratici hanno fatto varare alla Camera dei Rappresentanti il raddoppio dell’intervento già attuato per una spesa complessiva di sei mila miliardi di dollari, che raggiungerebbe quasi il 30 percento del reddito nazionale, circa 500 miliardi di euro nel caso dell’Italia.

Lo scarto quantitativo è significativo, ma non è il punto principale.  La differenza fra tutti gli interventi che abbiamo menzionato e quello previsto in Italia e in Spagna è radicale sotto un diverso profilo. Dappertutto, infatti, l’intervento pubblico ha un impatto immediato, diretto a risolvere la crisi economica fra il 2020 e il 2021. L’intervento previsto dalla Commissione europea entrerà in campo per la quasi totalità fra il 2022 e il 2027, sempre che si realizzano le stringenti condizioni previste. In ogni caso, niente a che fare con le disastrose conseguenze in atto dell’attacco del coronavirus, che ha già bloccato l’economia e minacciato masse di nuovi disoccupati.

In ogni caso, gli interventi a livello nazionale dovranno corrispondere alle “raccomandazioni specifiche per paese e contribuire alla transizione verde e digitale… I piani saranno riesaminati nel 2022…Gli impegni giuridici …devono essere contratti entro il 31 dicembre 2023. I relativi pagamenti saranno effettuati entro il 31 dicembre 2026”.” (Consiglio europeo, 17-21 luglio 2020).

Abbiamo visto in tutti i paesi coinvolti nelle conseguenze della pandemia – dalla Cina, al Giappone e agli Stati Uniti – una programmazione degli interventi immediatamente operativi o, al massimo, coinvolgendo il 2021. E’ evidente che l’intervento previsto dalle autorità dell’UE non ha niente a che vedere con gli immediati e sconvolgenti effetti economici e sociali della pandemia. All’inefficacia si aggiunge la beffa. Infatti, con l’alibi delle condizioni che accompagnano la concessione e l’impiego delle risorse, le autorità europee assumono la direzione di capitoli importanti della politica nazionale.

Non può stupire che la Confindustria manifesti il proprio entusiasmo. Nella misura in cui le risorse saranno autorizzate, si tratterà, fondamentalmente, di investimenti a media e lunga scadenza, senza alcun riferimento con la pandemia, agevolati da bassi tassi d’interesse. In ogni caso risorse vincolate al giudizio discrezionale di autorità esterne in un paese che gronda di risparmi inerti per la mancanza di un programma pubblico di investimenti funzionali allo sviluppo del paese.

Tralasciando l’evidente interesse di una parte del sistema imprenditoriale, scontiamo la rinuncia dei poteri pubblici a operare in funzione degli interessi del paese in relazione a settori chiave che sono al centro della politica nazionale di altri paesi dell’Unione europea come la Germana e la Francia.

In tutti i paesi avanzati - dalla Cina agli Stati Uniti al Giappone, e così via - si stabiliscono investimenti immediati finanziati dai prestiti che gli Stati accendono presso il sistema bancario, quando a provvedervi non sia direttamente la Banca centrale stampando moneta. In Italia sono depositati nelle banche oltre 1600 miliardi di euro, la metà dei quali ricava tassi d’interesse prossimi allo zero, quando non negativi.

L’Italia e la Spagna annoverano le quote di risparmio più alte in Europa. Come tutti gli Stati che abbiamo menzionato, potrebbero attingere prestiti da utilizzare per investimenti pubblici e a sostegno di quelli privati per accelerare la ripresa dell’economia. Il debito pubblico è corrispondente a una quota del reddito nazionale, e potrà essere ridotto nel corso degli anni in parallelo con l’aumento del reddito nazionale. Anzi è l’unico modo di ridurre il debito, dal momento che, senza una sostenuta crescita del reddito nazionale, il debito continuerà ad aumentate per effetto del pagamenti degli interessi – esattamente, com’è avvenuto in Italia e Spagna nell’ultimo decennio.

Ovviamente in tutti i paesi, sotto l’urto della pandemia che ha ridotto le entrate fiscali e aumentato la spesa pubblica, il debito pubblico è fortemente aumentato. Negli Stati Unti ha raggiunto il più alto livello dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il debito pubblico francese con oltre il 120 per cento del PIL supera quello spagnolo. Il Giappone, con gli interventi di ShinzōAbe che abbiamo ricordato, segnerà nell'anno in corso un debito pubblico intorno al 260 per cento del PIL. E’ in questo quadro che il debito pubblico si avvia ad aumentare in Italia dal 135 del 2019 al 160 per cento del PIL nel 2020.

Per avviarne prima il contenimento poi la riduzione in termini relativi al PIL, altra soluzione non c’è che puntare alla più rapida e sostenuta ripresa della crescita, promuovendo straordinari e ingenti interventi pubblici nelle infrastrutture, nell’ammodernamento del sistema stradale spesso in condizioni rovinose, nei settori pubblici di interesse generale come la scuola e la sanità, nel riordino delle periferie abbandonate delle grandi città del centro e del Mezzogiorno.

In sostanza, il recupero degli investimenti pubblici mancati nel corso un ventennio all’insegna del mitico pareggio del bilancio prescritto dalla filosofia neoliberista delle autorità europee. In breve, una linea d’intervento pubblico. Con diversi accenti adottata nei paesi che prefigurano l’uscita dalla crisi. Ma non è il caso che si prospetta in Italia.

La posizione della Banca d’Italia

L’Italia proviene da un periodo nel quale si sono intrecciate bassa crescita e recessione. Il problema, afferma Visco, governatore della Banca d’Italia, è la “crescita lenta del PIL che abbiamo osservato all’incirca negli ultimi 30 anni…”

La ragione di questo enorme salto di circa 30 anni indietro nel passato è duplice. La prima è, ovviamente, l'entità del collasso dell'economia dovuto alla pandemia. Il secondo motivo per cui siamo andati così indietro nel passato è che, dagli anni '90, la crescita del PIL italiano è stata estremamente debole” (traduzione mia)”. Ma questa seconda ragione merita, in effetti, un’importante qualificazione che il governatore omette.

Nel decennio Novanta, dopo la svalutazione della lira dell’autunno del 1992 sotto il governo Amato – svalutazione che si accompagna a quella della sterlina e di altre valute europee – si verifica nel 1993 una caduta del PIL in Italia come in molti altri paesi dell’Unione europea. Ma dopo la breve recessione del 1993, e il riallineamento della lira con l’adozione di più ampi margini di oscillazione per un insieme di paesi comunitari, l’Italia attraversa una fase di crescita, in alcuni anni lenta ma continua, che dura fino al 2001, segnando una crescita complessiva del reddito nazionale di circa il 14 per cento. E’ perciò immotivata e distorsiva l’affermazione del governatore che fa risalire il crollo del reddito nazionale agli anni Novanta. Provenendo da uffici che vantano le più qualificate capacità di analisi di cui dispone il paese, è un modo di ingenerare gravi e artificiosi elementi di distorsione nella valutazione degli andamenti economici e sociali del paese fra due fasi connotate da regimi monetari diversi.

La svolta radicale e, per molti versi, drammatica si verifica, in effetti, nel corso del ventennio che segue l’avvento dell’euro. Con l’entrata in vigore dell’euro nel 2002, lo scenario si avvia, infatti, a cambiamenti radicali, prima intessuti di una crescita relativamente bassa, poi di un intreccio fra recessione e ristagno intervallati da brevi periodi di ripresa.

Nel 2019 (ancora prima che il coronavirus manifestasse il suo devastante attacco), il reddito nazionale era fermo al valore dell’inizio del secolo, dopo essere sceso del cinque per cento nell’ultimo decennio dopo la crisi del 2008-2009. In questo quadro, con la radicale caduta del reddito il debito nazionale compie un balzo in avanti, passando dal 103 per cento del PIL nel 2007 al 135 per cento nel 2019.

L’Italia non rappresenta, tuttavia, una situazione eccezionale. L’eurozona nel complesso è l’area con minore crescita e più alti livelli medi di disoccupazione nell’ambito dei paesi capitalistici avanzati. Mentre l’eurozona oscillava tra recessione, ristagno e bassa crescita, gli stati Uniti hanno registrato il più lungo periodo di crescita della loro storia. Al tempo stesso, il centro dell’economia mondiale si spostava dal Mediterraneo sulle sponde del Pacifico sotto il dominio degli Stati Uniti e della Cina, ormai le due principali potenze economiche globali, seguite dal Giappone. In Europa si affermava il dominio della Germania che, non ostante una crescita complessivamente modesta, poteva avvalersi di un ineguagliabile avanzo della bilancia commerciale.

Questo tema attende di essere sviluppato con maggiori dettagli e motivazioni dagli storici dell’economia. Qui vale la pena di tornare sul prossimo futuro e sulle sue prospettive difficilmente confortanti.

I faalimenti nel'eurozona

Il fallimento della politica dell’eurozona che ha investito alcuni paesi e, in particolare, l’Italia non può essere ignorato. Una realistica valutazione delle vicende passate dovrebbe renderci più vigili sul futuro che si prospetta per interrompere il peggiore ciclo economico della storia nazionale.La direzione intrapresa va, purtroppo, in senso contrario.

In un recente intervento Daniele Franco, direttore generale della Banca d’Italia, tracciava i possibili sviluppi dell’economia nazionale.  La premessa, secondo il resoconto dell’intervento riportato da “24 ore”, è che “il peggioramento delle prospettive di domanda e della fiducia delle imprese inciderà sugli investimenti. E questa è forse’eredità più pesante che affronteremo nei prossimi anni”. Poi, l’alto esponente della Banca centrale osserva che la caduta del reddito nazionale potrà essere recuperata solo parzialmente nel corso del prossimo biennio con un aumento del reddito del 4.8 per cento nel 2021 e del 2,4 nel 2022 (Bankitalia non vede una “ripresa a V” per l’economia italiana, Il Sole-24 ore, 23 luglio 2020”).

In altri termini, il ritorno al reddito del 2019 può essere ragionevolmente previsto fra il 2023 e il 2024. Di là dell’arido conteggio degli anni, Il reddito nazionale in termini reali sarà ancora inferiore del 5 per cento rispetto a quello che precedeva la Grande Recessione del 2009-2011. Una prospettiva difficilmente consolante.

L’Italia si avvia, così, a essere la vittima sacrificale per eccellenza della poltica decisa dalla Commissione europea in combinazione con i rappresentanti dei ventisette Stati membri dell’UE.  Le conseguenze peseranno su una crescente massa di disoccupati, di lavoratori precari, di impoverimento di parti crescenti del ceto medio, e di inarrestabile arretramento delle regioni più povere del Mezzogiorno.

Si tratta, in generale, di un processo nel quale sono, in modo diverso, coinvolti i due governi, italiano e spagnolo, entrambi fondati su coalizioni di centrosinistra. Governi che, sottomettendosi, in funzione di un malinteso europeismo, ai dettati di Bruxelles, rischiano di lasciare campo aperto agli schieramenti di destra.

Come in una famosa commedia di Eduardo si afferma che “gli esami non finiscono mai”, così gli errori ostinatamente si ripetono nell'ambito della politica europea adottata dalla lunga sequenza dei governi italiani. Rinunciare a una soluzione che è adottata in tutti i paesi colpiti dalla più grave crisi da un secolo a questa parte è privo di senso. Ma è quello che, malauguratamente, si prospetta in Italia.

Reggerà il governo Conte fino all'elezione del nuovo presidente della Repubblica?  E' possibile, anche se non è certo. Se dovesse cadere, la destra maggioritaria nelle intenzioni di voto è pronta ad assumere il governo del paese.

Il futuro, secondo l’antica massima, è sulle ginocchia degli dei. Che, oggi, pare che abitino a Bruxelles, dove i sacrifici sono celebrati da spregiudicati sacerdoti dotati di un potere abusivo. Nessun governo è condannato a condurre una politica rovinosa per il paese che è chiamato a dirigere. Le possibilità di uscire dalla trappola in cui l’Italia si è cacciata esistono, come dimostra la lezione dei paesi normali alle prese con la pandemia del coronavirus. Purtroppo, di questa possibile svolta finora non c’è traccia

Antonio Lettieri

Antonio Lettieri is Editor of Insight and President of CISS – Center for International Social Studies (Roma). He was National Secretary of CGIL; Member of ILO Governing Body,and Advisor of Labor Minister for European Affairs.(a.lettieri@insightweb.it)

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