Cina - La ragion di Stato è figlia del Cielo

Sottotitolo: 
La spietata repressione di Pechino contro qualsiasi protesta di natura religiosa è un problema esclusivamente politico, non ideologico. La questione tibetana e i rapporti con la chiesa cattolica.

La spietata repressione di Pechino contro qualsiasi protesta di natura religiosa è un problema esclusivamente politico, non ideologico. Le motivazioni hanno radici lontane nel tempo e investono il carattere stesso della nazione cinese,  la storia della sua civiltà .Nel corso dei millenni, le vicende politiche della Cina hanno subito mutamenti quasi impercettibili, limitandosi spesso più alla forma che alla sostanza. A questa regola inossidabile, non ha fatto eccezione neppure la Rivoluzione maoista che, nonostante le esaltanti premesse dei primordi, alla fine ha consegnato il governo del Paese ad una oligarchia politica sempre più gelosa dei suoi privilegi e sempre più accuratamente lontana da ogni forma di democrazia.

Dalla unificazione della Cina nel III° sec. A.C., nel corso della sua complessa storia si sono succedute dinastie imperiali di diverse etnie e, in particolare tra la seconda metà del sec.XIX , fino alla metà del XX, sono scoppiate rivoluzioni di varie ideologie e perfino di opposte finalità. Sono mutate le formule e le parvenze, nuovi slogan sono stati lanciati, ma in pratica la gestione del potere è rimasta sempre identica a se stessa,salvo poche varianti, con una regola ferrea e inderogabile, il rifiuto di ogni forma di influenza esterna negli affari interni cinesi.

Gli anni compresi tra lo scoppio della funesta “ Guerra dell’oppio” del 1839 e la riconquista della completa sovranità nazionale, un periodo di insopportabile umiliazione ma relativamente breve rispetto alla plurimillenaria storia della Cina, non hanno fatto che rinvigorire la vocazione nazionalistica del Paese e alimentare l’istinto xenofobo che ne costituisce la sua base fondamentale. L’esperienza durissima dei “Trattati ineguali”, ad esempio, ha comportato l’adozione di quella regola che resta la condizione essenziale di ogni contratto, di ogni accordo, di ogni protocollo d’intesa, quella del famoso “ reciproco interesse” ripetuto come un mantra in ogni trattativa internazionale.

Considerata in questa ottica, risulta comprensibile- seppure per molti versi ripugnante per l’etica politica occidentale di oggi ma non certo di ieri- la repressione violenta di ogni protesta di natura religiosa che si è manifestata con una certa continuità dai giorni della rivoluzione maoista, fino ai giorni nostri.

Religione e politica

Per Pechino, infatti, la protesta religiosa altro non è che un pretesto per interferire negli affari politici del suo governo.
Così è stato per la dura repressione della popolazione uigura dello Xinjiang che nel 2009 è costata la morte di centinaia di insorti, considerata una persecuzione contro la religione musulmana da molti osservatori stranieri e dagli stessi uiguri, ma liquidata come una normale operazione di polizia   contro  ribelli indipendentisti, da Pechino.
Poco più di dieci anni fa, aveva destato un grande interesse la diffusione di una setta buddista, nota con un nome di difficile traduzione e di arcano significato, la “Falun-gong”, nata negli Stati Uniti e ben presto attecchita in Cina. Venne liquidata in pochi mesi con operazioni capillari di polizia che eliminarono sul nascere la adozione di precetti e dottrine considerati contrari alle leggi e ai principi della Repubblica Popolare. In breve, quello che sembrava un incendio, si rivelò poco più di un fuoco di paglia e in breve tutto scomparve
Più complessa è la situazione del Tibet.  Dal  1642, quando il V° Dalai Lama assunse i massimi poteri, il Tibet divenne ufficialmente uno Stato religioso, in cui “ religione e affari politici restano indissolubili”.  ( così Melvin C. Goldstien, traducendo il tibetano “chosi nyitrel nel suo  “ A History of Modern Tibet- 1913-1951 – University of California Press).

Il Tibet di oggi raggruppa  circa la metà della popolazione tibetana nel suo complesso. L'altra metà è sparsa in altre province della Cina o nei paesi di confine, soprattutto nel Nepal, nell'India, nel Butan e in Pakistan. Secondo calcoli approssimativi, i residenti in Tibet di etnia tibetana sono circa 6,5 milioni, quelli di origine cinese 7 milioni.  La “ Provincia Autonoma dello Xi Zang”, come i cinesi chiamano il Tibet, è una delle cinque Regioni cui è stato riconosciuto lo status di autonomia. Le altre sono il Guangxi,la Mongolia Interna ( Neimenggu), il Ningxia e il Xingjiang ( Sinkiang).( La traduzione letterale di “Xi Zang” non indica neppure una zona geografica, né tanto meno una nazione, ma piuttosto una “ Raccolta di testi buddisti e taoisti dell'Occidente”).

Secondo le fonti  più accreditate, il Tibet conobbe una unità politica soltanto all'epoca dell'Impero Tibetano che durò non più di duecento anni e si estinse verso la metà del IX sec. della nostra era. Paradossalmente, una parte consistente della popolazione che vive nella Regione Autonoma del Tibet con capitale Lhasa, sembra rifiutare il concetto che la  civiltà del Paese  abbia avuto inizio nel periodo tra il VII e l'VIII sec, in coincidenza con la  diffusione della religione buddista importata dall'India. L'orgoglio nazionale fa risalire la storia religiosa  alla fede nel “Bon”, un insieme di culti locali che precedettero l'adozione delle  pratiche nate in India e che non oltrepassarono mai i  confini del Tibet.

Il ricorso alla storia

La questione della identità religiosa e della sua origine, è così importante, che perfino gli storici cinesi si sono prodigati per dimostrare il ruolo secondario  coperto dall'India nella diffusione del buddismo nel Paese.  Documenti alla mano, sostengono che il merito va riconosciuto alla Cina.

Nel 641, la principessa Wen Cheng, figlia dell'Imperatore della dinasta Tang Taizong- fu mandata in sposa al re Songtsan Gambo. “La sua dote comprendeva statue di Sakyamuni, fondatore del Buddismo, e 360 volumi di scritture  buddiste e testi classici. La leggenda narra che anche l'imperatore Taizong le fornì  vari oggetti religiosi, prodotti alimentari , 300 testi classici per le pratiche divinatorie e per danze sacre, una ciotola di bronzo utile come specchio per allontanare  il male, 60 libri dedicati alle costruzioni e alle arti artigianali, 4 libri di medicina, oltre a numerosissimi articoli di seta e di abbigliamento “ ( Da “ The Istorical Status of China's Tibet” di Wang Jiawei e Nyma Gyaincain- China Intercontinental Press- 1997).

La minuziosa descrizione delle ricchezze importate in Tibet dalla principessa Tang, non vuole dimostrare che il Paese fosse già inglobato nella Cina, ma soltanto che il buddismo fu per la prima volta introdotto da una principessa cinese e che alla Cina si deve la diffusione della cultura e delle arti , in poche parole della civiltà, in Tibet.

Per i cinesi, la fusione della “Regione dell'Ovest” nel “Paese di Mezzo”, sarebbe avvenuta alcuni secoli dopo e quasi in modo naturale.
Con una evidente forzatura nell'interpretazione degli antichi documenti, la storiografia ufficiale di Pechino tenta di dimostrare che il lento passaggio del Tibet da Stato indipendente a Regione cinese, inizia già con le dinastie Yuan (1271-1368 )  e Ming (1368-1644), per poi concludersi  con la Dinasta Qing (1644-1911), quando la Regione sarebbe diventata, a tutti gli effetti, parte integrante e indissolubile della Cina. Ma sarà soltanto nel 1951, due anni la nascita della nuova Repubblica Popolare di Cina, che il Tibet verrà ufficialmente dichiarato  provincia della Cina.

Nel maggio di quell'anno, ufficiali tibetani e rappresentanti del governo cinese  firmarono il famoso “Trattato in 17 punti”, col quale il Tibet accettava formalmente di rinunciare alla sua sovranità territoriale, in cambio dell'autonomia regionale.
Tenzin Gyatso, l'attuale XIV Dalai Lama, aveva allora 16 anni e viveva esule in India, dove era fuggito l'anno prima, in seguito all'invasione dell'esercito cinese nella sua terra. Il 21 luglio, tornava   a Lhasa e il  24 ottobre ufficializzava il suo consenso al nuovo status della sua terra  con un telegramma al presidente Mao: “ il Documento( il Trattato in 17 punti- n.d.r.) gode dell'unanime sostegno del governo locale del Tibet, dei monaci tibetani e della popolazione residente in Tibet. Essi vogliono, sotto la leadership del presidente Mao e del Governo Centrale del Popolo, assistere attivamente le truppe del PLA ( Armata Popolare di Liberazione) nella loro avanzata nel Tibet, per consolidare la difesa nazionale”. ( da” The Historical Status of China's Tibet”di Wang Jiawei e Nyma Gyaincain- China Intercontinental Press-).

Tre anni dopo, nel 1954, Mao Ze-dong invitava il giovane Dalai Lama a visitare la Cina. “ L'accordo in diciassette punti era già stato firmato. -osserverà lo stesso Dalai Lama in una intervista a Thomas Laird- Adesso loro ( i cinesi) erano in Tibet...Nessuna reazione dalle Nazioni Unite, nessuna reazione dal governo indiano, né dal governo britannico, né dal governo americano...... Che fare? ... Sì, dovevo trattare con gli invasori” ( da “ Il mio Tibet- Conversazioni con il Dalai Lama -Mondadori 2008).

Nel 1959, in seguito ad una sanguinosa rivolta contro gli occupanti cinesi e la durissima repressione ordinata da Pechino, il Dalai Lama fugge di nuovo in India, dando inizio ad un esilio che, dopo 53 anni,  sembra non lasciare alcuna speranza di ritorno. Pur in fase alterne, dalla nascita all'ultimo addio, il periodo complessivo in cui il  Dalai Lama visse in Tibet, non supera l'arco di  23 anni.  

Con il “Trattato in 17 punti” e il definitivo allontanamento del Dalai Lama da Lhasa,  la Cina  raggiungeva due risultati fondamentali: assicurarsi il fianco occidentale dalle mire espansionistiche dell'India, difendersi dalla politica aggressiva di Mosca e, soprattutto,  evitare ogni possibile interferenza politica da parte di  un sovrano che godeva, in più, della indiscussa autorità di  capo religioso.
La protezione garantita in seguito dagli Stati Uniti al Dalai Lama e il periodico sacrificio  di monaci  buddisti tibetani immolati in protesta contro l'occupazione cinese, non avranno altra conseguenza che rendere più pesante il pugno di ferro di Pechino sulla sua “ Provincia Autonoma dell'Ovest”.

All'indomani della immolazione dell'ultimo monaco buddista in Tibet, l'11 gennaio 2012, il portavoce del Ministero degli Esteri di Pechino Liu Weimei, respingeva seccamente le accuse americane sulla questione tibetana. “ Il governo cinese- ha dichiarato- attribuisce un grande valore alla salvaguardia e ai diritti delle persone di tutti i gruppi etnici. Ci opponiamo a qualsiasi commento o attività di coloro che usano la questione tibetana per interferire con gli affari interni”.

L'obbedienza allo Stato al di sopra di tutto

Per Pechino, la preghiera va bene, la fede in qualunque fede religiosa riguarda la scelta spirituale di ogni individuo e va comunque rispettata, ma il comando supremo deve restare solo e soltanto nelle mani dello Stato, con la sua politica e le sue leggi che nessuno potrà mai prendersi la libertà di violare.

Di diverso carattere, ma della stessa natura della contrapposizione al Dalai Lama, rimane il rifiuto della Cina ad avviare relazioni diplomatiche con la Santa  Sede e l'inflessibile divieto di professare la religione cattolica al di fuori di quella, tollerata appena ma legalmente ammessa, dei “ cattolici patriottici”, assoggettata al  controllo diretto del Governo.“C'è tra il cielo e l'uomo un rapporto, una corrispondenza sicura, infallibile per le ricompense e i castighi”  dichiarava l'imperatore Yung Cheng, con uno slancio spirituale che ai missionari cristiani che operavano in Cina agli inizi del '700, aveva lasciato sperare in una identità di ideali etici e religiosi miracolosamente favorevole ad una conversione di tutto il Paese al cristianesimo. 

Poi, improvvisamente, tutto si capovolse. “Il grande sogno non durò a lungo. Nel 1724, l'imperatore Yung Cheng- proprio colui che i missionari gesuiti proponevano all'ammirazione dei sovrani europei-dichiarò loro: “ Non mancherà nulla alla Cina quando cesserete di esservi e la vostra assenza non causerà alcuna perdita. Non tollereremo nessuno che ne violi la legge e che cerchi di distruggerne i costumi. Che direste se mandassi un gruppo di bonzi e di lama nel vostro Paese per predicare la loro legge? Come  li
ricevereste?” Il cristianesimo venne proscritto.”  ( Pietro Citati-Prefazione a “ Lettere edificanti e curiose  di missionari gesuiti dalla Cina -1702- 1776”). Quando infine papa Clemente XIV soppresse la Compagnia di Gesù, si chiuse per sempre la speranza di trasformare la Cina in un immenso regno cristiano.

Cattolici patriottici, cattolici clandestini

Si calcola che il numero dei cattolici in Cina, tra “patriottici”, di obbedienza allo Stato e “clandestini” di stretta osservanza alla dottrina di Roma, si aggiri oggi intorno agli 8 milioni,  cifra  forse irrisoria se messa in relazione ad una popolazione di oltre 1 miliardo   e 250 milioni di abitanti, ma  comunque importante in senso assoluto, anche perché testimonia che la presenza della fede cattolica è in Cina ancora miracolosamente  viva, al di là di ogni divisione di formule o di riti. Per rispondere a questi grandi temi, alle rivendicazioni di competenze irrisolte e forse irrisolvibili, forse basterebbe l'amaro sfogo   del parroco che incontrai anni fa, nella chiesa  Dong Tang ( chiesa dell'Est) aperta  negli anni Settanta dopo un lungo periodo di chiusura:“ Non mi arriva niente da Roma, quando commento il Vangelo, debbo limitarmi a citare le Lettere di San Paolo, non ho altro a disposizione”.

Era un prete “ patriottico”, rinnegato da Roma, strettamente sorvegliato dalle autorità di Pechino  e appena tornato da uno spaventoso periodo di “rieducazione” dove era stato costretto ai lavori più umili e degradanti a causa della sua religione cattolica.  Ma era un uomo di grande fede e da quel giorno continuo a domandarmi quale senso possa avere per l'universalità del messaggio evangelico, la distinzione tra cattolici “patriottici”, che si professano fedeli a Roma ma nel rispetto delle leggi dello Stato, ed i cattolici “ clandestini” o “ sotterranei”, come vengono comunemente definiti, fedeli soprattutto a Roma e forse destinati  alla scomparsa definitiva.
All'indomani della vittoria maoista in Cina, il capo dei servizi dell'Ufficio degli Affari culturali, dichiarava :“ Dopo la liberazione, ci siamo sbarazzati di piccoli gruppi che usurpavano il potere della Chiesa, ma all'estero questi imperialisti  continuano ad esibire  i loro titoli ed a nominarsi arcivescovi o vescovi di una diocesi della Cina. Essi aspettano la restaurazione promessa dagli americani e da Tchang Kai-shek”. (Tratto da le “Le Saint -Siège et la Chine” di Louis Wei Tsing-Sing).

Da allora,  il sostegno assicurato dai cattolici allo sconfitto governo del presidente della Repubblica Nazionale di Cina nel corso della guerra civile, rimane per Pechino una ferita ancora aperta. La canonizzazione di 120 martiri antirivoluzionari, celebrata da Giovanni Paolo II° nel 2000, proprio  il primo di ottobre, giorno della festa nazionale della Repubblica Popolare non ha fatto che approfondire una tensione che tutti i cattolici cinesi nel loro complesso, sono i primi a pagare. “...I cristiani della Chiesa del silenzio in Cina- ammoniva  padre Wei- non si stancano di raccomandare  ai missionari stranieri che, una volta espulsi dalla Cina esortino i cattolici militanti
dell'Occidente a non attaccare il loro governo, a non insultare il popolo cinese, ad evitare qualsiasi forma di vendetta contro la Cina, per non aggravare le loro difficoltà”.

Oggi, a distanza di oltre sessant'anni, la situazione non è molto cambiata . Il Papa, per Pechino, è un capo di Stato straniero, con l'aggravante di essere anche il capo spirituale di tutti i cattolici sparsi nel mondo i quali sono tenuti a prestargli obbedienza e sottomissione, prima ancora di  dimostrare la loro fedeltà alle leggi dello Stato.I contrasti in materia non mancano, a cominciare dall'obbligo di abortire dopo il primo figlio che, naturalmente, contrasta con le direttive cattoliche. Ma il punto di più forte attrito, come già  nel corso  dei secoli della nostra storia, resta la nomina dei vescovi sulla quale Pechino intende esercitare la propria autorità, considerandola incarico di natura politica.

Nel dicembre del 1011, la cronaca ufficiale governativa annunciava che “negli ultimi 20 anni, la Chiesa cinese ha formato più di 1.500 giovani sacerdoti, di cui 100 inviati all'estero per il perfezionamento. Inoltre la Cina conta 3000 giovani suore che hanno pronunciato i voti iniziali e 200 che hanno pronunciato i voti definitivi. Ogni anno, 50 mila persone vengono battezzate, mentre vengono stampate 3 milioni di copie della Bibbia”. Il comunicato evita accuratamente di enunciare il numero dei vescovi nominati dal governo e  in contrasto con le direttive della S.Sede, mentre  ignora la realtà dei cattolici  “clandestini” di stretta osservanza romana, gli unici,però, che  la S.Sede riconosce come autentici cattolici .

“ La S.Sede è turbata dalle notizie provenienti dalla Cina continentale  relative al fatto che un certo numero di vescovi in comunione con il Papa, siano stati costretti dai funzionari del governo a partecipare ad una ordinazione episcopale illecita a Chengde, nel nord-est dell'Hebei, programmata intorno al 20 novembre. Se queste notizie sono autentiche, la S.Sede considera tali azioni come gravi violazioni della libertà di religione e della libertà di coscienza. Inoltre ritiene tale ordinazione illecita e dannosa per le relazioni costruttive che sono state sviluppate negli ultimi tempi tra la Repubblica Popolare Cinese e la S.Sede. Inoltre la S.Sede conferma che padre Joseph Guo Jincai non ha ricevuto l'approvazione del santo Padre per essere ordinato Vescovo della Chiesa  cattolica. La S. Sede, interessata a sviluppare relazioni positive con la Cina, ha contattato le autorità cinesi sull'intera questione e ha chiarito la propria posizione”. ( Ag. Fides, 18 XI 2010) 

E' assai probabile che il Ministero degli Affari Esteri, se interpellato, riserverebbe  alla S.Sede la stessa risposta data Washington a proposito del Tibet. Mutatis mutandis, naturalmente, ma non troppo.     

Paola Brianti

Paola Brianti è giornalista.Ha lunfgamente soggiornato in Cina