Dopo Berlusconi

Sottotitolo: 
Matteo Renzi, nuovo leader del P.D., ha promesso una radicale svolta poltica, ma il problema irrisolto del maggior partito della sinistra italiana è il vuoto di stratgia rispetto alle rovinose poltiche dell'eurozona.

Verso la fine dell'anno due scosse hanno profondamente modificato il panorama politico italiano. Il primo evento è stato la rottura del Popolo della Libertà (PDL).  Silvio Berlusconi, il padrone indiscusso del partito che aveva sostenuto il governo delle “larghe intese” con il Partito Democratico, sperava di ottenere in cambio un salvacondotto che lo mettesse al riparo dalle inevitabili sentenze di condanna. Una volta andata delusa questa speranza ed espulso dal senato, la reazione è stata la rottura della maggioranza di governo. Questo era del tutto prevedibile .

Ma la vera sconfitta di Berlusconi, al di là della condanna giudiziaria, è stata politica: la secessione di una parte del gruppo dirigente del partito e l’ammutinamento dei ministri da lui nominati, decisi a rimanere nel governo a sostegno di una nuova mini- alleanza sotto l’egida del Partito democratico. Questo “tradimento” ha fatto fallire il disegno di Berlusconi di aprire la crisi di governo, e andare in tempi rapidi alle elezioni, dove cercare una nuova legittimazione attraverso la rinata “Forza italia”. Da questo punto di vista, un’autentica sconfitta politica in un momento cruciale per il suo destino politico e personale. E’ anche la fine dell’era di Berlusconi? La domanda non ha ancora una risposta univoca. Ci torneremo più avanti.

Nel frattempo, un altro evento, per molti versi ancora più significativo, ha mutato l’assetto politico della sinistra italiana. Matteo Renzi, il giovane carismatico sindaco di Firenze, ha ottenuto una vittoria schiacciante nel referendum tra iscritti e simpatizzanti del Partito Democratico per l’elezione del segretario generale del Partito Democratico. Non si tratta di un’ordinaria successione generazionale, come si tende a enfatizzare. Il sindaco fiorentino ha vinto conducendo una dura campagna di denuncia contro la dirigenza del partito e la sua politica, e promettendo un cambiamento politico radicale.

Vale la pena di ricordare che solo un anno fa alle “primarie” per la candidatura alla premiership, Renzi era stato nettamente sconfitto da Bersani, allora segretario del partito. Che cosa ha determinato una svolta così radicale? La ragione evidente sta nella delusione di milioni di militanti e simpatizzanti di fronte all’incapacità del Partito democratico di delineare una coerente piattaforma di contrasto alla crisi, sommata, prima, al sostegno al di Mario Monti, poi alla scelta di tornare all’innaturale alleanza col PDL. La strada di Renzi era a questo punto tutta in discesa. Bill Emmott, ex direttore dell'Economist, ha paragonato il successo di Renzi a quello di Blair, quando trionfalmente impose il passaggio dal "vecchio " al “New- Labour”. Eppure le differenze sono importanti. E' difficile esser Blair in un'unione monetaria sotto l'egemonia tedesca. In ogni caso. Blair assunse la leadership di un partito che aveva già vissuto quasi due decenni di thatcherismo e di riforme sociali di aggressiva impronta neo-conservatrice.

Renzi conquista la leadership in un paese nel bel mezzo di una crisi irrisolta. La politica di austerità imposta dall’asse Berlino - Bruxelles ha prodotto risultati disastrosi. L'Italia è al terzo anno di recessione. Il 2013 sta per chiudersi con una recessione dell’1,8 per cento, la più grave nella zona euro, Grecia esclusa; la disoccupazione è raddoppiata dall'inizio della crisi. E per il 2014, l'OCSE prevede una crescita incerta, zero virgola qualcosa, con l'unica certezza dell’aumento della disoccupazione ben oltre il 12 per cento della forza lavoro, e oltre il 40 per cento di giovani disoccupati.

Tony Blair con la ripesa economica della fine degli anni Novanta poté dare un “volto umano” al nuovo paradigma neoliberista.  Al contrario, in Italia, senza un'inversione di rotta radicale, che non è all'orizzonte, la prosecuzione della politica di austerità imposta dalle autorità europee promette solo nuovi sacrifici in un clima di malessere sociale che sempre più assume le forme variegate di jacquerie fuori dalle tradizionali organizzazioni politiche e sindacali.

Intanto, con assoluta quanto ottusa indifferenza, per il 2014 Bruxelles obbliga l'Italia a tagliare ancora il deficit di bilancio al di sotto del tre per cento attuale - il vecchio parametro di Maastricht - nonostante questo livello di disavanzo sul PIL sia significativamente più basso di quello di altri grandi paesi dell’eurozona, come la Francia (4,1%), Spagna (7.1%) e, per fare un confronto con un paese non- euro, Gran Bretagna ( 7,2% ) . L’obbedienza (che, secondo Monti era spontanea) ai vincoli insensati della tecnocrazia di Bruxelles, sotto l’egida della Germania, continua a imporre tagli di spesa pubblica e aumento del prelievo per rispettare i tempi di realizzazione del pareggio di bilancio.

Un gatto che si morde la coda, in una fase nella quale la mancanza di crescita tende ad accrescere automaticamente il disavanzo (e il debito) in una spirale incontrollabile. E come se non bastasse, a partire dal 2015, il Fiscal compact, assunto con scellerata leggerezza, impone all’Italia un taglio di bilancio prossimo a cinquanta miliardi di euro per ridurre il debito al 60 per cento del PIL nei prossimi venti anni. Un manifesto non-senso in un quadro duraturo di stagnazione e di disoccupazione crescente .

Durante la sua campagna per le primarie, Renzi ha oscillato tra una blanda denuncia dei
" tecnocrati senza cuore " di Bruxelles e il sogno hamiltoniano degli Stati Uniti d'Europa. Ma nulla di concreto su ciò che si propone di fare, come nuovo segretario del PD e prossimo candidato alla premiership, in relazione alle politiche di austerità europee. Piuttosto, il suo programma è in linea con le pretese di Bruxelles dirette a imporre un crescendo di " riforme strutturali": maggiore “flessibilità” (deregolazione) del mercato del lavoro e dei salari, nuovi tagli alle pensioni e privatizzazioni dei servizi pubblici.

 Superfluo dire che l'élite italiana ha accolto con favore la svolta promessa dal nuovo segretario, sperando che, chiusa l’epoca dell’inaffidabile Berlusconi, il Pd possa assumere una posizione rassicurante e di garanzia, svincolata da residue pulsioni di sinistra. Eppure il rischio è di confondere i desideri con la realtà. Per cominciare, Berlusconi è gravemente ferito, ma non politicamente morto. Ha reagito alla perdita di controllo sul Pdl sciogliendolo e facendo rivivere " Forza Italia”, il partito-movimento col quale iniziò la sua avventura politica venti anni fa.

Non bisogna dimenticare che i partiti di centro-destra hanno generalmente trovato il modo di formare una larga alleanza alla vigilia delle elezioni. Non stupisce che anche gli scissionisti del PDL, guidati da Alfano, come capo della pattuglia governativa e del "Nuovo  Centrodestra", si siano premurati di annunciare che quando scoccherà il momento della verità, saranno pronti a tornare alla vecchia coalizione, necessariamente centrata sulla nuova Forza Italia, sotto l’immarcescibile Berlusconi, indipendentemente dalla circostanza che, per l’interdizione dai pubblici uffici, non possa essere candidato – ruolo che potrebbe essere assunto da una delle figlie in una simbolica successione dinastica. In altre parole, il risultato di un confronto diretto fra i due schieramenti, a parte l’incognita Grillo, rimane incerto in un contesto nel quale la sinistra è tradizionalmente caratterizzata da divisioni interne, fondate o no che siano, mentre la destra non ha alcun problema a coalizzarsi, interessata più alla spartizione del potere che alla coerenza dei programmi politici.

 In ogni caso, il 2015 è ancora lontano, mentre a maggio si svolgeranno le elezioni per il Parlamento europeo. Il PD arriverà a quell'appuntamento come responsabile di un governo che non ha più l’alibi di Berlusconi. Con un’economia stagnante e la disoccupazione in crescita, il partito rischia di essere stretto in una tenaglia. Da un lato, le Cinque stelle di Grillo, che prenderà voti sia facendo leva sul malcontento sociale sia sulla proposta di un referendum sull'euro. D'altro lato, Berlusconi con Forza Italia e ciò che resta della Lega Nord, oltre ai piccoli partiti di destra, a sua volta, pronto a condurre una battaglia contro il Partito Democratico e il suo governo, denunciandone la sudditanza ai “diktat” di Berlino e Bruxelles.

Una forte affermazione dei partiti euroscettici, se non apertamente anti- europei  - che non a caso Letta ha già con allarme prospettato ai partner europei come un rischio concreto – sarebbe non solo un problema per il principale partito della sinistra italiana, ma anche per la tenuta stessa dell’eurozona. Può, infatti, diventare la goccia che fa traboccare il vaso del malessere che grava sull’intera area mediterranea, e che si fa sempre più evidente in Francia, come dimostra il successo del Fronte nazionale di Marine Le Pen nelle recenti elezioni locali.

In questo caso, la crisi italiana finora considerata con sufficienza dalle autorità europee, che inviano a Roma un ex mediocre politico finlandese di destra a impartire lezioni, difficilmente potrebbe essere considerata come un occasionale incidente di percorso. In altri termini, senza un impegno fortemente determinato diretto a incidere sulla strategia perdente dell’eurozona, la novità del successo di Renzi, che affascina i media italiani e l'oligarchia europea, rischia di sciogliersi come neve al sole.

In effetti, questa dovrebbe essere la stagione per un importante ri-orientamento delle politiche di Bruxelles. La nuova leadership del PD non può continuare a eludere un serio dibattito sulla politica dell’eurozona, sulle sue conseguenze economiche e sociali, e sul degrado delle istituzioni democratiche, quando il ruolo delle rappresentanze è confinato all’esecuzione di politiche antipopolari, spacciate come strutturalmente e pedagogicamente modernizzatrici. Non mancano analisi provenienti da diversi punti di vista, ma convergenti, nel gettare l’allarme sui rischi che corre il paese e la stessa Europa (si veda, per esempio, Nuti, Paladini, Jespersen, in questo numero di Insight), e le diverse proposte indicative di possibili alternative all’attuale politica delle autorità europee (Per esempio, “Una modesta proposta” di Yanis Varoufakis , Stuart Holland e James Galbraith) .

Quali che siano le valutazioni sulle diverse analisi e proposte, è, in ogni caso, fondamentale partire dalla situazione così com'è, non da un’astratta tavola dei desideri; da quello che sarebbe potuto essere e non è stato. La retorica europeista minaccia non di rafforzare, ma di distruggere quello che c’è di essenziale nella prospettiva europea.

Troppo a lungo il dibattito sulla crisi, iniziata negli Stati Uniti e diventata sempre più europea, è stato soffocato nell’estrema e paralizzante alternativa: stare dentro o uscire dall’euro.  La nuova leadership del Pd dovrebbe sbloccare un dibattito che ormai mescola ideologia e demagogia per orientarlo sulla sostenibilità- insostenibilità concreta della politica dell’eurozona e sulle possibili alternative. Sarebbe un modo serio e giustamente ambizioso, per la leadership di un paese che fu tra i fondatori della Comunità europea, di preparare il semestre europeo del prossimo luglio.

Sarebbe, questo, un segno concreto, percepibile e sicuramente apprezzato, anche dalla sinistra europea, di rinnovamento politico del Partito Democratico, in grado di rendere meno ardua la sfida delle elezioni europee. E, al tempo stesso, un contributo effettivo verso la messa in discussione e il superamento delle politiche fallimentari che hanno finora caratterizzato l’eurozona, mettendo a repentaglio, in prospettiva, l’insieme del disegno europeo.