Europa, un voto che può essere decisivo

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Se in Italia e in Francia prevarrà una maggioranza contro l’attuale politica, lo scenario sarà scosso dalle fondamenta e i governi dovranno prenderne atto.

I regimi democratici hanno molti difetti, che nei periodi di crisi diventano flagranti. Negli anni della crisi abbiamo visto aumentare gli squilibri sociali, l’insicurezza, la disoccupazione di massa, la diseguaglianza. Ma rispetto ai regimi autoritari hanno un privilegio invidiabile: la possibilità dei cittadini di poter esprimere liberamente con il voto il loro giudizio sulle politiche dei governi.

E’ il caso che si presenta con le elezioni europee. Le politiche dell’eurozona sono state negli anni della crisi, senza ombra di dubbio, fallimentari. Le politiche portate avanti con ossessiva ostinazione dall’asse Berlino-Bruxelles non solo non hanno contrastato gli effetti della crisi, ma ne hanno enormemente aggravate le conseguenze sociali.

La politica di austerità doveva correggere, avviare a soluzione i problemi della finanza pubblica e rilanciare su basi nuove la crescita. I risultati sono stati per la maggior parte dei paesi catastrofici. Se si esclude la Germania che ha in mano le leve di comando della politica dell’euro, in tutti i principali paesi dell’eurozona assistiamo all’aumento del debito pubblico e della disoccupazione di massa.

Quando la crisi esplose negli Stati Uniti con il collasso della Lehman Brothers e con la sua proiezione in Europa, nell’autunno del 2008, la Grecia aveva un debito pubblico intorno al 110 per cento del Pil; oggi, dopo la devastante cura della troika (Fondo monetario, Bce e Commissione europea), il debito ha raggiunto il 175 per cento!. La Spagna aveva un debito inferiore al 40 per cento, il più basso tra i grandi paesi dell’eurozona, inferiore anche a quello tedesco; ora è più che raddoppiato toccando il 93 per cento del Pil. Contemporaneamente in Grecia come in Spagna la disoccupazione ha superato un quarto della forza lavoro, un livello che non si era più visto dopo la Grande Depressione degli anni Trenta. Sono due esempi, non gli unici, ma forse i più significativi, del fallimento della politica di austerità, definita da Stiglitz in una recente intervista a Repubblica “criminale”.

Ma anche la critica dell’austerità rischia di essere monca e fuorviante, se non si guarda all’altra faccia della medaglia: la politica delle cosiddette riforme strutturali. Che, in effetti, sono il vero obiettivo strategico, a lungo termine, della politica e dell’ideologia neoliberista che domina a Bruxelles. In altri termini: la deregolazione finale del mercato del lavoro, il taglio dello Stato sociale e le privatizzazioni. Il caso spagnolo è indicativo. Chiunque direbbe che l’austerità ha avuto un effetto rovinoso sull’economia e sulla società spagnola. Invece, no. Per Berlino e Bruxelles, la Spagna è un esempio di successo e un modello da seguire. La ragione di questo paradosso sta nelle riforme strutturali del governo Rajoy: libertà di riduzione dei salari e, in alternativa, libertà di licenziamento, nonché compressione del welfare in relazione alle pensioni e alle indennità di disoccupazione.

L’austerità è costata all’Italia la perdita del 9 per cento del reddito nazionale, l’aumento del debito fino al 135 per cento, il raddoppio della disoccupazione da poco più del 6 al 13 per cento. Ma quando Mario Monti ha detto che l’Italia doveva fare i “compiti a casa”, ha cominciato dalle pensioni, operando la più pesante e sconsiderata riforma delle pensioni mai attuata in Europa. E oggi che Matteo Renzi vuole presentarsi a Bruxelles come un leader capace di attuare le riforme che i suoi predecessori hanno esitato a mettere in atto, ha imposto per decreto legge (una misura che sarebbe legittima solo in caso di necessità e urgenza) una riforma del lavoro che istituzionalizza la precarietà, facendo del lavoro a termine il nuovo generalizzato paradigma contrattuale. E, per rassicurare Bruxelles, promette di procedere con privatizzazioni ad ampio raggio, aprendo lo shopping internazionale nei confronti di ciò che rimane delle grandi imprese italiane.

Austerità e riforme strutturali s’intrecciano. E, tuttavia, fra le due facce della medaglia vi è una differenza fondamentale. L’austerità può essere imposta dalla Commissione europea con l’appoggio politico di Berlino. Ma le riforme strutturali hanno bisogno, per realizzarsi, del concorso decisivo e della complicità dei governi e delle elite nazionali. Sotto quest’aspetto il voto del 25 maggio rifletterà incontestabilmente un giudizio sulle politiche europee e insieme sulla subalternità delle politiche nazionali.

Tre paesi diversamente importanti dell’Unione europea come la Gran Bretagna, la Polonia e la Svezia, che non fanno parte dell’eurozona, hanno amministrato ciascuno a suo modo le conseguenze della crisi, e hanno chiuso il 2013 con una crescita intorno al 3 per cento, mentre l’eurozona ha continuato a languire, prigioniera di una crescita inconsistente dello 0,5 per cento.

La crisi è nata negli Stati Uniti e, a giudizio di molti economisti di tendenza democratica, non è stata ancora risolta. Ma in America la maggiore responsabilità può essere ragionevolmente imputata all’opposizione repubblicana. La differenza è che negli Stati Uniti i repubblicani sono all’opposizione e, controllando un ramo del Congresso, possono ostacolare la politica dell’amministrazione (si veda il blocco dell’iniziativa di Obama per aumentare del 40 per cento il salario minimo legale, portandolo da 7,25 a 10,10 dollari l’ora), mentre nell’eurozona la politica reazionaria dei repubblicani è quella praticata a Bruxelles.

In ogni caso, il voto del 25 maggio non è sull’alternativa: uscire o rimanere nell’euro. Questa è la versione del “salto nel buio”, volutamente forzata e allarmistica dei governi e della grande stampa. Le elezioni riguardano la perpetuazione o il rovesciamento del disastroso binomio austerità-riforme strutturali imposto dal “consenso” Berlino –Bruxelles. Da questo punto di vista, la piattaforma dell’”Altra Europa”, la lista per Alexis Tsipras, come candidato per il Partito della Sinistra Europea alla presidenza della Commissione europea, si presenta come la più limpida, inequivoca e coerente.

Le previsioni indicano a livello europeo una forte ascesa dei partiti euroscettici. Questo risultato potrà cambiare l’assetto del Parlamento europeo. Ma non basterà a cambiare le politiche fondamentali dell’eurozona. Paradossalmente, la contromossa più probabile diretta a neutralizzare l’esito elettorale potrebbe essere la costituzione di una “Grande alleanza” fra socialisti e popolari sull’esempio della Germania, in un rapporto di sostanziale continuità con l’attuale politica dell’eurozona.

Ma questo scenario è condizionato da un’incognita. L’incognita è in due risultati elettorali: quelli della Francia e dell’Italia. Si tratta di due dei tre grandi paesi che hanno fondato l’Unione europea, e di cui non può fare a meno l’eurozona, salvo suicidarsi. Se in Italia e in Francia si registrerà, come i sondaggi lasciano prevedere, un voto maggioritario contro l’attuale politica dell’asse Berlino-Bruxelles, lo scenario sarà scosso dalle fondamenta.

Non sarà stato un voto contro l’Unione europea, e nemmeno per uscire dall’euro, ma per il ripudio dell'attuale politica dell’eurozona. I governi di Hollande e di Renzi dovranno prenderne atto. Non è mai successo che le zioni europee abbiano avuto una portata così decisiva: cambiare la politica europea per cambiare le politiche nazionali, e viceversa. Un’occasione straordinaria, da non disperdere Forse l’ultima per salvare l’Unione europea dal rischio di essere travolta dal naufragio dell’euro.