Il XXI° secolo ci riporterà al XIX°? Qualche considerazione su Piketty

Il XXI° secolo ci riporterà al XIX°? Qualche considerazione su Piketty


1. “Il capitale nel XXI° secolo” è un libro di successo; come altri libri famosi di economia, sarà citato da molti ma letto da pochi. Vale la pena di leggerlo, perché fornisce una massa di dati e di considerazioni sulla distribuzione del reddito, uno dei temi centrali dell’economia come della politica. Va però detto subito cosa non c’è nel lavoro di Piketty. Non c’è una teoria del valore, una teoria dello sviluppo capitalistico e delle sue tendenze di fondo, o del ciclo economico. L’economista francese non è il Karl Marx del XXI° secolo, caso mai è il Simon Kuznets, ma un Kuznets di sinistra. Quest’ultimo, quarto premio Nobel per l’economia nel 1971, è stato colui che ha definito i concetti di prodotto interno lordo e delle sue componenti.
Osservando le serie storiche, ha formulato un’ipotesi circa l’andamento della diseguaglianza nella distribuzione del reddito, nota come la curva di Kuznets, la cui forma somiglia ad una U rovesciata. Quando la curva sale la diseguaglianza (misurata dall’indice di Gini) aumenta. La forma a campana sta appunto ad indicare che la distribuzione del reddito tende a peggiorare nella prima fase dello sviluppo, migliorando invece in maniera costante con la transizione a un'economia di tipo industriale. Questo avviene in quanto in una prima fase la fascia di popolazione più ricca investe il proprio capitale, incrementando ulteriormente la propria ricchezza; ma successivamente con lo sviluppo dell’industria e dei servizi, ed il calo dell’agricoltura, la ricchezza si  diffonde tra la popolazione, si crea un robusto ceto medio, e la concentrazione dei redditi personali diminuisce, mentre la concorrenza riduce i profitti delle imprese.
Piketty evidenzia come il periodo considerato da Kuznets sia molto particolare; è vero che dalla prima guerra mondiale alla seconda c’è stato una secca diminuzione del rapporto capitale-reddito, e che nei trenta anni successivi alla seconda guerra mondiale il rapporto non è cresciuto, o è cresciuto poco. Ma si tratta di due periodi particolari: nel primo le distruzioni di capitali sono state ampie, nel secondo la forte crescita del reddito, soprattutto nei paesi dell’ Europa continentale e in Giappone, hanno tenuto a freno la tendenza secolare, che riappare quando allarghiamo la visuale sui dati che dall’ottocento arrivano fino al primo decennio del duemila.

2. Per quanto riguarda l’andamento del rapporto capitale-reddito, la formula magica è s/g. Il capitale comprende tutte le forme di capitale, reale e finanziario, mobili ed immobili. Il reddito è quello al netto degli ammortamenti. La formula ci dice che se nell’arco di tempo che consideriamo, il saggio di risparmio (netto) si mantiene costante, e se lo stesso avviene per la crescita del reddito, allora il rapporto capitale-reddito tenderà verso s/g; se s è pari al 10%, e g a 1,5%, il rapporto si avvicinerà a 6,7, cioè il patrimonio complessivo della società sarà 6,7 volte il reddito. Ovviamente lungo un qualunque arco di tempo né s né g si mantengono costanti, ma variano, per cui anche il rapporto capitale-reddito, in periodi brevi (ad esempio quinquennali), avrà delle oscillazioni. Ma basta considerare la propensione media e la crescita media di tutto il periodo per capire dove si collocherà alla fine il rapporto.
Da rapporto capitale-reddito si passa immediatamente alla quota dei redditi da capitale sul reddito nazionale: basta infatti moltiplicare lo stock di capitale per il suo rendimento medio (r) per avere la distribuzione funzionale, rs/g. Un rendimento del 5% porta ad una quota del 33%, un rendimento del 4% al 27%. Ad esempio i grafici da 6.1 a 6.4 del testo di Piketty mostrano, in Francia e nel Regno Unito, che la quota dei redditi da capitale oscillano sotto il 30% per buona parte del secolo scorso e si collocano, verso il 2010, proprio intorno al 27%.
Poiché il capitale è molto più concentrato del reddito, è chiaro che i redditi da capitale sono molto più concentrati di quelli da lavoro, malgrado l’esplosione dei “lavoratori” plurimilionari. In effetti vi sono professionisti, artisti e sportivi che guadagnano centinaia di volte il reddito medio, ma il grosso di questi sono quelli che Piketty chiama i super-cadres, cioè i CEO delle banche e grandi imprese o quelli subito sotto di loro. A ben vedere in realtà si tratta di persone che si appropriano di una parte dei profitti delle società, per ragioni che sono state abbondantemente spiegate. Nella divisione funzionale del reddito i loro guadagni (almeno in grande parte) dovrebbero essere collocati tra i redditi da capitale, e non da lavoro, anche se passano molto tempo nei loro uffici.
Piketty si sofferma a lungo sul rapporto tra r e g. E’ chiaro infatti che se s rimane costante, una caduta di g rispetto ad r porta ad un aumento del rapporto, e questo a sua volta determina un peggioramento della distribuzione personale dei redditi. Un rapporto di 4/1,5 applicato ad un saggio del risparmio (netto) del 10% determina una quota pari a 26,7%, ma se g cala leggermente a 1,4, la quota sale a 28,6, quasi due punti in più. Tuttavia le tre variabili non sono indipendenti. Una relazione positiva tra tasso di crescita e di risparmio emerge in periodi lunghi alcuni decenni; il caso della Cina è forse uno dei più spettacolari. Piketty non crede molto alla spiegazione fornita da Modigliani con la teoria del ciclo vitale, ma vi sono anche spiegazioni alternative, dove emerge una relazione positiva tra le due variabili. D’altra parte negli ultimi sette anni, con l’inizio della crisi, abbiamo assistito a cadute molto ampie sia della crescita del Pil che dei rendimenti degli investimenti, sia reali che soprattutto finanziari.

3. La lettura delle prime tre parti del libro produce un senso d’ineluttabile determinismo; i sessanta anni del secolo scorso, a cominciare dalla prima guerra mondiale, sono stati un periodo speciale, che è finito. La tendenza sarà quella di tornare ai livelli di diseguaglianza della belle époque, bella, evidentemente, per i possessori di opulenti patrimoni. Tuttavia il grafico 10.10 sembra offrire qualche speranza. Esso mostra il divario tra il rendimento netto del capitale (dopo le imposte e le perdite) negli ultimi duemila anni, con una proiezione fino al 2100. Per quanto fino all’ottocento le stime siano necessariamente da prendere con grande cautela, lo scarto tra r e g è molto ampio. Ma per tutto il novecento e oltre (l’aggregazione dei dati è dal 1913 al 1950 e dal 1950 al 2012), il rapporto si capovolge, e il tasso di crescita supera quello netto sul capitale. La proiezione verso la fine del XXI° secolo mostra una divaricazione tra un r che cresce e un g che cala.
Qualche dubbio sulle valutazioni delle diverse componenti del capitale vanno formulate. Piketty mostra che il peso dei terreni è sceso nei due secoli trascorsi dai tempi di Ricardo, mentre è cresciuto soprattutto quello dei fabbricati, che rappresentano la componente principale dei patrimoni privati, superiore allo stesso patrimonio delle imprese produttive, dato soprattutto dai valori azionari. Ora il grosso dei fabbricati è costituito dalle abitazioni; il prezzo delle abitazioni è dato dal rapporto tra affitti e tasso d’interesse a lungo termine. I periodi di forte crescita di questi prezzi sono dipesi sia da aumenti del numeratore per via di uno squilibrio tra domanda e offerta, sia da una diminuzione dei tassi a lunga. Ma nei periodi in cui le bolle immobiliari si sono sgonfiate gli affitti sono caduti, e con essi il prezzo delle abitazioni, malgrado il fatto che i tassi a lunga siano anch’essi diminuiti.

Un discorso analogo può ripetersi per i fabbricati ad uso produttivo. La previsione allora di un aumento del valore degli immobili, in rapporto al Pil, è piuttosto incerta.  Per quanto riguarda il capitale produttivo, Bob Rowthorn (Insight Piketty's Capital in the Twenty-First Century - A Critique) svolge una serie di critiche ben dirette alle ipotesi sulla dinamica della quota dei profitti che Piketty adotta. Le deprimenti previsioni dell’autore francese forse possono essere messe in dubbio anche senza dover affidare le speranze della sinistra all’imposta progressiva sul patrimonio; che può svolgere un ruolo di attenuare il grado di concentrazione nel top 1% dei ricchi, ma non può essere in grado di correggere il trend di fondo, se esso è quello ipotizzato da Piketty.
Un ruolo importante verrà svolto nei decenni futuri dagli orientamenti di politica economica che prenderanno i governi. Se in Europa la strada continuerà ad essere quella indicata dalla Germania, è chiaro che la distribuzione funzionale, e quindi anche quella personale, tenderà a peggiorare. Una economia export-led è necessariamente un’economia in cui i consumi privati e pubblici devono lasciare un adeguato posto alle esportazioni, o meglio ad un adeguato surplus della bilancia commerciale. Quindi la quota dei salari sul Pil deve essere contenuta. Sembra che la Spagna sia indicata come il modello per gli altri paesi europei in difficoltà, Francia compresa. Negli ultimi sei anni la quota dei salari spagnoli è scesa di 3,7 punti percentuali. Sei anni sono un periodo breve dal punto di vista delle forze descritte da Piketty; il miglioramento della quota dei profitti è dipeso da precise scelte di politica economica.    


 

Ruggero Paldini