Italia - Storia della crisi in un grafico

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Sarebbe bastata una manovra di normale intelligenza economica (e poltica) per evitare una delle più lunghe e disastrise crisi dell'eurozona.

L'Istat ha presentato il suo rapporto annuale, come al solito ricco di spunti di riflessione. Il grafico riportato nelle prime pagine (p. 6), ci sembra molto utile per riepilogare la storia della crisi in Italia. Mostra, infatti, le mosse degli attori privati e di quello pubblico e la loro influenza sull'andamento del Pil e permette dunque qualche riflessione sulla politica seguita e su quella attuale. Ecco il grafico:

Contrib-Pil-Rapp-Istat

Abbiamo provveduto a riportare una errata corrige dell'Istat sui colori (erano scambiati quelli dei consumi delle famiglie e della PA); una ulteriore precisazione è che si tratta di variazioni congiunturali (cioè rispetto al trimestre precedente) e non tendenziali (ossia sullo stesso trimestre di un anno prima).

Il 2008 era iniziato ancora bene. Il saldo della bilancia commerciale era stato positivo (ma attenzione, su base annua la bilancia era in rosso dal 2004), e nonostante i consumi sia privati che pubblici in calo, le imprese mostravano un certo ottimismo, dato che investivano e aumentavano le scorte. Ma già dal secondo trimestre questo ottimismo svapora, e sia gli investimenti che le scorte vanno in negativo e poi precipitano - la crisi è esplosa - nei tre trimestri seguenti.

Una piccola iniezione di spesa pubblica (la barretta più scura) innesca la fugace ripresa del 2010 e appena il Pil accenna a tornare a salire si rivede qualche investimento (la barretta rossa). Ma intanto è esplosa la crisi greca, la cui dissennata gestione guidata dalla Germania ha fatto sospettare ai mercati che l'euro può dissolversi e che dunque è il caso di lanciare la speculazione sui debiti pubblici, perché se quel fatto dovesse verificarsi ci sono grossi guadagni da fare sulle svalutazioni e rivalutazioni conseguenti al possibile ritorno alle valute nazionali. Lo spread va alle stelle e ancora col governo Berlusconi (e sulle pressioni europee) e poi con il successore Monti cominciano le manovre "lacrime e sangue".  L'effetto si vede subito dalle barrette gialle, i consumi delle famiglie, che vanno a precipizio; e se le famiglie non comprano certo le imprese non investono, e la barretta rossa punta stabilmente verso il basso.

Quello era il momento in cui sarebbe stato indispensabile un intervento della spesa pubblica, e un intervento a debito, perché ogni taglio sottrae risorse all'economia. In una fase congiunturale del genere non ha senso il dibattito se la spesa pubblica favorisca la crescita o sia invece solo una droga: quando si stanno per tirare le cuoia e c'è un farmaco salvavita nessuno si mette a discutere sui possibili effetti collaterali negativi, a quelli si penserà dopo, una volta scampato il pericolo più grave. Certo che bisogna combattere gli sprechi e rendere la spesa pubblica più efficiente (che sarebbe appunto il senso della "spending review"). Ma quando l'economia va a picco non si può stare a sottilizzare, perché intanto le imprese chiudono e molte non riapriranno, la gente perde il lavoro e in molti non riusciranno più a reinserirsi. E invece no, la barretta scura rimane quasi tutti i trimestri sotto lo zero, e sappiamo che su base d'anno la finanza pubblica è stata sempre restrittiva, cioè ha aiutato la congiuntura... avversa!

Del che si può dare colpa ai nostri governi solo in parte, perché, come sappiamo, nel frattempo la linea europea, tante volte ribadita da Angela Merkel, continuava ad essere quella di "fare i compiti a casa". E anzi, la crisi non doveva essere alleviata, perché questo avrebbe ridotto la pressione ad attuare le mitiche "riforme", consistenti in tagli allo Stato sociale e riduzione delle protezioni per i lavoratori. Un'altissima disoccupazione garantiva inoltre che non ci sarebbero state troppe proteste. Va anche detto, però, che i nostri governi hanno fatto ben poco per opporsi a queste politiche, perché di fatto condividevano - e condividono - la filosofia di fondo che le ispira.

Nel grafico solo una barretta, durante il periodo nero 2011-12, contribusce a non farci affondare ancor peggio: quella della domanda estera netta. Sappiamo però che ciò è dovuto a una sostanziale tenuta delle esportazioni e a un crollo dell'import, conseguenza della domanda interna agonizzante. Che non è stata sostenuta dalla Legge di stabilità dello scorso anno, ancora una volta restrittiva (vedi la prevalenza delle barrette nere sotto lo zero) e non lo sarà da quella in corso.

Se dunque l'Italia ha subìto la crisi più degli altri, è difficile mettere in dubbio che ciò sia stato dovuto alla politica di bilancio, più restrittiva che negli altri paesi. E se oggi siamo il fanalino di coda della crescita il motivo è sempre quello. Chi addita ad esempio la Spagna omette sempre di dire che i deficit cumulati 2010-2014 sono stati per l'Italia di 12,3 punti, per la Spagna di ben 32,2. C'è poi addirittura chi canta le lodi della politica di austerità del Regno Unito. Ora, a parte che gli inglesi, fuori dall'euro, hanno  la possibilità di manovrare il cambio e ne hanno ampiamente usufruito, facendo svalutare la sterlina; e hanno anche usufruito di una banca centrale non condizionata dalle paranoie tedesche, con allargamento monetario che dura da tempo e un acquisto di titoli pubblici che ha tenuto bassi i tassi anche nei momenti critici. Ma anche la supposta "austerità" di bilancio è una favola, smentita per esempio da questo grafico elaborato dall'economista Massimo D'Antoni.

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Il grafico dell'Istat ha fornito dunque l'occasione di ripercorrere sinteticamente la storia della cisi, con le sue assurdità e i suoi errori. Ma ora, ne stiamo finalmente uscendo? Tecnicamente il +0,3% del primo trimestre non basta per dichiararla finita, bisogna che anche il prossimo dato non sia sottozero. Ma da un punto di vista sostanziale, stiamo sperando in una crescita che potrebbe variare tra lo 0,7% (la maggior parte delle previsioni) e lo 0,4 (quelle meno ottimiste). Questo dopo una contrazione del Pil intorno al 10% e la riduzione di un quarto della produzione industriale, e con l'occupazione che nessuna previsione vede in ripresa. Tutto questo significa essere fuori dalla crisi?

Sarebbe invece il caso di riflettere meglio su quello che è successo in questi anni, e trarne le conseguenza per il futuro. Ma se guardiamo a ciò che si sta facendo sia in Italia che in Europa, non si può che concludere amaramente che è chiedere troppo.

Carlo Clericetti

Giornalista - Collaboratore di "La Repubblica.it." Membro dell'Editorial Board di Insight. Blog: http://www.carloclericetti.it