L’ambigua politica europea nel Mediterraneo

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Una fondamentale e sterile continuità, con scarse novità, caratterizza l’approccio dell’Unione europea alla “primavera araba".  

L’Europa guarda con ambiguità e incertezza al sommovimento politico che ha investito buona parte del mondo arabo. Che cosa fare per sostenere le rivendicazioni di libertà e benessere delle popolazioni, attestate quotidianamente dalle manifestazioni di massa nelle città e dalla guerra civile che si è installata in Libia? All’inizio, come ci furono le rudi esitazioni della Francia (di Andreotti e altri) dinnanzi alla prospettiva di riunificazione della Germania, così ci sono state varie reazioni conservatrici, soprattutto in Francia e in Italia. Ma ben presto si è affermata una risposta unanime, volta ad un urgente e radicale adeguamento delle strategie e delle politiche europee onde sostenere il cambiamento. Quale risposta sta prendendo forma? Come va valutata?

Una prima risposta,  sollecitata dagli stati membri, è arrivata dall’Unione Europea, in un documento intitolato “Un Partenariato per la Democrazia e la Prosperità Condivisa con il Mediterraneo Meridionale”. Questo documento è stato approvato dal Consiglio Europeo Straordinario dell’11 marzo scorso. Esso sarà completato da un piano volto a modificare e rafforzare la Politica Europea di Vicinato (PEV), che sarà presentato in maggio, e da alcuni provvedimenti quadro riguardanti l’immigrazione (l’Approccio Globale all’Immigrazione, il Partenariato sulla Mobilità, e il Piano per lo sviluppo delle capacità di gestione dei flussi di immigrazione e rifugiati nell’UE), che dovrebbero essere approvati dal Consiglio Europeo di giugno.

Il documento indica innanzitutto gli obbiettivi della politica euro-mediterranea: (a) trasformazione democratica e consolidamento delle istituzioni; (b) un più forte legame di cooperazione con le popolazioni e le società civili; (c) una crescita e uno sviluppo economico sostenibili e inclusivi (con riguardo, sembra di capire, sia alle relazioni regionali, sia a quelle domestiche). Elenca i settori prioritari: (1) democrazia e istituzioni; (2) mobilità e immigrazione; (3) promozione dello sviluppo economico; (4) accelerazione dell’integrazione economica internazionale nel campo degli scambi commerciali e degli investimenti; (5) promozione della cooperazione in settori considerati cruciali, come l’energia e i trasporti; (6) assistenza finanziaria. Soprattutto, definisce le strategie che intende seguire: (a) un criterio di differenziazione fra partner; (b) un criterio di condizionalità basato sull’incentivazione, per cui a chi più farà sarà dato di più (“more for more); (c) l’estensione alla generalità dei partner del così detto “statuto avanzato” nelle relazioni bilaterali; (d) una PEV più efficace; (e) il rafforzamento del dialogo politico.

Le dichiarazioni pubbliche in proposito sono nettamente orientate ad asserire che serve un approccio interamente nuovo, perché tutto sta cambiando. Tuttavia, chi legge il documento approvato dal Consiglio avendo una certa pratica di rapporti euro-mediterranei, non può non restare impressionato dalla continuità che invece esso esprime. La stessa impressione si ritrae nel considerare le diverse misure settoriali. Ci sono alcune misure nuove. Per esempio, è certamente molto importante l’ingresso della Banca Europea di Ricostruzione e Sviluppo nell’area del Mediterraneo, dove è finora mancata un’istituzione volta a favorire gli investimenti nell’impresa privata. Ci sono anche altre novità minori, come la “Civil Society Neighbourhood Facility” (un fondo per la società civile nel quadro della PEV), che forse riuscirà finalmente dare una spinta all’infittimento dei rapporti fra le società civili. Tuttavia, la quasi totalità delle misure proposte sono  rafforzamenti o completamenti di misure esistenti. Sembra quasi che i servizi dell’UE abbiano preso l’occasione della “primavera araba” per impacchettare misure sparse, già in cantiere, e dare loro, nel metterle assieme, un assetto più razionale ed efficace onde assicurarne un’approvazione più rapida da parte degli stati membri. Si stenta a scorgere un approccio nuovo, quel cambiamento radicale che è invece regolarmente invocato nei discorsi ufficiali. Una fondamentale e sterile continuità, con scarse novità, caratterizza l’approccio dell’Unione europea alla “primavera araba”

Le strategie indicate dal documento dell’UE fondano la nuova politica su un approccio differenziato e condizionale nel quadro della PEV e un rafforzamento della qualità dei rapporti bilaterali su  piattaforme politiche ed economiche “avanzate”. Questa strategia, a nostro avviso, può deve essere valutata da due punti di vista: Innanzitutto, ci si può chiedere se gli strumenti e gli obbiettivi che la strategia contempla sono adeguati. In secondo luogo, ci si può chiedere se la strategia risponde allo scenario che sta emergendo nella regione. Per quanto riguarda l’adeguatezza della strategia, senza entrare in troppi dettagli, si possono sottolineare alcuni punti centrali.

È necessario uno sforzo per mettere a disposizione risorse aggiuntive - Non è possibile distinguere nettamente quale molla abbia scatenato la prima rivolta in Tunisia e  poi propagato il movimento agli altri paesi, se la molla politica della tirannia o quella del profondo disagio economico e sociale che domina in questi paesi. Tuttavia, questo disagio ha un ruolo centrale e deve essere massicciamente e prontamente affrontato, perché senza un rapido miglioramento economico-sociale qualsiasi regime democratico o comunque più liberale è destinato a naufragare rapidamente. Da più parti – anche da parte italiana  – si è subito invocato un “Piano Marshall” *, ma è evidente che non esistono le risorse né una compatta volontà europea per un intervento del genere (la Presidenza ungherese dell’UE ha subito messo in chiaro che nessun aiuto al vicinato meridionale deve avvenire a detrimento di quello orientale). D’altra parte, il documento dell’UE non indica nessun rilevante sforzo di assistenza o cooperazione finanziaria, né può farlo in assenza di stanziamenti nuovi da parte degli stati membri. Nondimeno, se davvero si vogliono sostenere le transizioni di Tunisia ed Egitto, e di altri paesi che potrebbero seguire il loro esempio, uno sforzo straordinario è decisamente necessario.

È necessario riformulare importanti aspetti della strategia di cooperazione e sviluppo economico. Nel quadro della cooperazione allo sviluppo gli interlocutori dell’UE devono sostanzialmente cambiare, nel senso che ci deve essere molto meno governo e assai più privati. L’impostazione essenzialmente intergovernativa della politica euro-mediterranea dell’UE ha messo troppi fondi nelle mani di amministrazioni corrotte e basate su sistemi clientelari. In secondo luogo, la prospettiva dello sviluppo umano, e con essa quella dell’occupazione, deve assumere maggiore centralità. Dei tre pilastri dello sviluppo, le riforme e l’internazionalizzazione si affermano spesso a spese dei bisogni dello sviluppo umano. Questo è largamente accaduto nei paesi mediterranei dove l’UE ha dato preminenza a questi due pilastri e i regimi autoritari hanno funzionato da cani da guardia. Il superamento di questa condizione non solo richiede maggiore attenzione a realizzare una politica economica più inclusiva (dei bisogni degli uomini), ma anche un allargamento della prospettiva di inclusione regionale dei partner mediterranei. A questi ultimi, più che lo “statuto avanzato” (formula che abilmente solletica le sensibilità al prestigio delle classi dirigenti arabe) va offerto un ingresso nello Spazio Economico Europeo.

È necessario permettere un afflusso significativamente più ampio verso i mercati del lavoro europei – Poiché nessuno può credere che le economie del Mediterraneo generino posti di lavoro a sufficienza anche nel medio periodo, un aiuto primordiale consiste nell’aprire maggiormente le frontiere dell’Europa ai lavoratori mediterranei, essenzialmente a quelli del Maghreb; ciò va fatto con un piano coerente (in modo che non vadano tutti in Francia ) e razionale (sforzandosi di sapere meglio quali sono le domande di lavoro in Europa; offrendo programmi di addestramento professionale; etc.). Si deve notare che su questo punto, il programma dell’UE e dei suoi stati membri è invece diretto a migliorare la performance dell’attuale sistema di contenimento dell’immigrazione con più visti da dare alle élites e più chiusura versi i lavoratori.

È necessario, infine, un maggiore distacco rispetto agli orientamenti politici e culturali dei partner del Mediterraneo Meridionale – Si deve ammettere che esistono strategie femministe di emancipazione basate su obbiettivi e criteri diversi da quelle prevalenti in Occidente; ugualmente, si deve ammettere che se un partito islamico vince le elezioni non lo si può escludere poi dal governo, come è successo con Hamas. Tutto questo è necessario, se davvero si vuole aprire la strada a una significativa cooperazione politica, ma lo è tanto di più se la prospettiva è quella della trasformazione in corso. Se questa trasformazione porterà a regimi democraticamente eletti, gli europei si troveranno di fronte paesi diversi da quelli che sono stati finora rappresentati attraverso lo schermo dei regimi autoritari dei Ben Ali e dei Mubarak.

Questi punti spiegano alcuni motivi che rendono il documento approvato dal Consiglio Europeo dell’11 marzo non innovativo e suggeriscono che per diventare adeguata la nuova politica euro-mediterranea dell’UE deve fare molta strada.
C’è poi, come abbiamo detto, un’altra prospettiva dalla quale esaminare le proposte che sono sul tappeto, ed è quella di cercare di misurarle sui cambiamenti che stanno avvenendo e le loro più probabili implicazioni, cioè sullo scenario mediterraneo emergente. Si deve riflettere su due questioni: la condizionalità e la differenziazione ovvero la frammentazione e l’integrazione.

La condizionalità non è affatto una novità. La novità sembra stare nella conclamata volontà di applicarla, stavolta, sul serio. Naturalmente, di per sé una severa condizionalità non è una panacea, poiché il partner può decidere di non sottostare alle condizioni e l’UE si ritroverebbe in mano una lancia spuntata. Perciò, mentre la condizionalità va intesa come un deterrente da non usare, gli obbiettivi dovranno essere raggiunti attraverso una diplomazia capace di assicurare coesione prima di eventualmente arrivare all’applicazione della condizionalità. In questa prospettiva, assume importanza il dialogo politico. Sappiamo, però, che questo dialogo politico dipende dagli stati membri più che dall’UE, la quale ha a disposizione un esteso Servizio per l’Azione Esterna ma una politica estera e di sicurezza comune forse ancora più debole di quella pre-Lisbona. Perciò la condizionalità fa senso, ma la sua attuazione dipende da fattori più generali che stanno al di fuori della politica euro-mediterranea. In altri termini, inutile illudersi di poter impiegare la condizionalità al posto di una PESC più robusta.

Il secondo aspetto sta nella necessità di ricollocare la politica europea verso il Mediterraneo in un qualche contesto collettivo. L’esperienza fatta negli anni passati è che il quadro multilaterale del Partenariato Euro-Mediterraneo non ha funzionato né sul piano politico, dove la convivenza di Israele con i partner arabi e la perdurante assenza di una soluzione al conflitto arabo-israeliano hanno impedito qualsiasi progresso, né su quello economico, dove i partner - arabi e israeliani - hanno di gran lunga preferito il loro rapporto bilaterale con l’UE e messo in non cale la creazione di rapporti multilaterali. In questo senso, la PEV, all’inizio guardata dai partner arabi con sospetto in un quadro di temuta competizione con i paesi dell’Est europeo, è stata invece un successo. Di conseguenza, il ragionamento che si fa oggi sia a Bruxelles sia nelle capitali è che abbiamo già lo strumento giusto, cioè la PEV, e che l’unica cosa importante da fare è di rafforzarlo accentuando la differenziazione e preoccupandosi solo marginalmente della dimensione regionale.

Ma non è così. Come per la condizionalità, anche per la differenziazione non si può evitare di interrogarsi su quali saranno i suoi risultati. Fino a che punto ha senso per l’UE e gli stati membri condurre una politica destinata a portare a una regione differenziata? Sotto il profilo strategico un vicinato frammentato non fa molto senso. La differenziazione regionale è un successo se, pur nelle differenze, almeno la maggior parte dei partner accetta di sviluppare un rapporto ricco e articolato; ma se la differenziazione dovesse tradursi in una divaricazione - alcuni rapporti ben sviluppati, da un lato, e altri modesti e sottosviluppati, dall’altro - difficilmente la si potrebbe considerare un successo. La differenziazione fra paesi va bene, ma non è così se porta a significative disomogeneità regionali. Dunque, quale quadro regionale offrire a rapporti bilaterali differenziati in modo da recuperare coerenza strategica?

Il documento approvato dal Consiglio l’11 marzo risponde che sarà necessario rivitalizzare l’Unione per il Mediterraneo, l’organizzazione intergovernativa che nel 2008 ha preso il posto del Partenariato Euro-Mediterraneo ma che da allora non è riuscita neppure a partire. Non è una risposta soddisfacente ( e bisogna dire che chi ha scritto il documento è il primo a non crederci). Il problema è però più vasto dell’inadeguatezza mostrata dall’Unione per il Mediterraneo. Una prima questione deriva dagli stessi eventi in corso: essi sono destinati ad approfondire le differenziazioni politiche fra i paesi della regione, specialmente se alcuni paesi riusciranno a realizzare una certa liberalizzazione politica, mentre altri cadranno in una situazione di confusione e altri ancora, per reggersi, dovranno accrescere il livello di repressione. Un’altra previsione che si può fare, senza tema di sbagliarsi troppo, è che ci sarà un inasprimento e una maggiore intransigenza in merito al conflitto arabo-israeliano, sia dei paesi eventualmente trasformati in democrazie (che rifletteranno più fedelmente un’opinione pubblica che negli ultimi dieci anni ha avuto tutti i motivi per diventare ancora più anti-israeliana di quello che già era), sia di quelli che resteranno autoritari (che aumenteranno l’ostilità verso Israele per deviare gli umori dell’opinione pubblica all’esterno e mostrarsi più ligi “ai principi” di quelli democratici). Dunque, la platea euro-mediterranea tenderà di per sé a diventare ancora più disomogenea e l’ostacolo costituito dal conflitto arabo-israeliano tenderà ad aumentare.

Perciò, la fattibilità di un quadro di rapporti regionali, per quanto esso sia utile, appare oggettivamente elusiva. Beninteso, l’UE potrebbe fungere da “federatore” se avesse un profilo di politica estera e di sicurezza più alto. Questo profilo potrebbe dare all’UE e agli europei una qualche possibilità in più di avere un ruolo verso Israele e verso l’Iran e ciò avrebbe un certo interesse per i “nuovi” arabi. Ma abbiamo già ricordato che questo profilo si sta invece abbassando, ragion per cui appare improbabile che l’UE riesca a fare fronte agli sviluppi strategici che di scorgono in prospettiva. L’UE resterà con la PEV e sarà, quindi, costretta ad accettare una riduzione delle sue capacità di azione strategica, in una situazione in cui, per soprammercato, nella regione si stanno espandendo nuovi attori come la Cina, l’India e gli stessi stati del Consiglio di Cooperazione del Golfo.

In conclusione, l’Europa ha avvertito la necessità di dover dare una risposta ai problemi che le trasformazioni in corso nel mediterraneo richiedono. Tuttavia, la sua risposta non appare all’altezza, sia in sé e per sé, sia se misurata sugli sviluppi di scenario che si profilano all’orizzonte. Da un lato, la proposta su cui l’UE sta lavorando richiede forti aggiustamenti (risorse aggiuntive, una nuova strategia di cooperazione, maggiore apertura all’immigrazione e una visione nuova dei rapporti politici coi partner). Dall’altro, le tendenze in atto nel Mediterraneo e Medio Oriente, in assenza di una politica estera europea comune più robusta, rischiano di trasformare l’obbiettivo della differenziazione in frammentazione strategica e disintegrazione regionale.

* Il governo Berlusconi ha proposto il lancio di un “Piano Marshall” ben nove volte (Somalia, 2002; Medio Oriente, 2003; Abruzzo, 2008; Sardegna, gennaio 2009; Italia meridionale, agosto 2009; Palestina, febbraio 2010; Italia meridionale/2, luglio 2010; giovani, marzo 2011; Mediterraneo/Maghreb, marzo 2011).
 

Roberto Aliboni

Roberto Aliboni è Drettore del programma Mediterraneo e Medio Oriente dell’istituto Affari Internazionali,Roma; Consigliere Scientifico dell’Istituto Europeo per il Mediterraneo, Barcellona