La Costituzione venuta dal futuro

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Il progetto di società elaborato dai padri costituenti è rimasto a lungo semi-nascosto. Ma oggi la "piazza" riscopre ed esalta i principi di eguaglianza e libertà iscritti nella madre di tutte le leggi 

Gli italiani non avevano mai visto un documento giuridico rilegittimarsi diventando un racconto popolare. Può darsi che la semplicità espressiva ne abbia facilitato il prodigioso evento:il testo costituzionale non supera le trenta cartelle; ogni articolo si compone in media di tre commi; le frasi non superano le venti parole e le parole impiegate appartengono per lo più al vocabolario di base. Se, per le ragioni che dirò tra un attimo, è ragionevole dubitarne, rimane comunque il fatto che le duecento parole della prima parte della costituzione non riuscirono a scuotere un’opinione pubblica cui era stato comunicato che l’istanza del dopo-Liberazione di defascistizzare la normativa preesistente andava respinta perché era malata di massimalismo.

L’argomento era sensato, ma non del tutto innocente. Vero è che nemmeno l’abrogazione delle leggi può provocare l’immediata dissoluzione del clima culturale che ha fertilizzato il terreno nel quale esse affondavano le radici. Tuttavia, era del pari sensato immaginarsi i disorientamenti che avrebbe prodotto la scelta di demandare la responsabilità politica della defascistizzazione dell’ordinamento al ceto professionale politicamente meno responsabile e culturalmente più legato al passato: ossia, ai giudici ordinari, al giudice delle leggi – che peraltro si sarebbe insediato soltanto nel 1956 – e in genere agli operatori giuridici.

Viceversa, la giuspubblicistica non mise al centro della sua attenzione la capacità regolativa della costituzione, molte norme della quale – le più innovative e qualificanti, situate nella prima parte del documento – vennero concordemente definite programmatiche per metterne in risalto l’inettitudine ad incidere sulla realtà delle relazioni tra le persone. Gli esperti giuridici in materia di lavoro non mostrarono un eccessivo disagio a servirsi di una normativa che, criminalizzato il conflitto collettivo, sequestrava il soggetto sindacale nel cono d’ombra del diritto pubblico e, quanto alle regole dello scambio contrattuale tra retribuzione e lavoro, il codice civile custodiva la memoria della loro privatizzazione. E, dal canto suo, l’opinione pubblica finì in fretta per domandarsi se fosse proprio necessario identificarsi nei principi e nei valori della costituzione repubblicana dal momento che, specialmente in materia di lavoro, i governanti non consideravano ingombrante il retaggio normativo di un regime collassato. La risposta che le fu suggerita, e che si diede, era alimentata dal pregiudizio che la costituzione riguardasse la forma di governo o poco più e perciò fosse ininfluente su andamento ed esito degli affari privati. Soprattutto quelli a livello micro.

A ragione, la storiografia ritiene che la costituzione sia stata sdoganata dall’avvento del centro-sinistra, nella prima metà degli anni ’60. Tuttavia, è indubitabile che i risultati più significativi del disgelo costituzionale hanno fatto seguito ad un indistinto protagonismo di massa fiondato sull’unificante obiettivo di adeguare prassi consolidate al principio affermato nel comma 1 dell’art. 3 per cui “tutti i cittadini hanno pari dignità sociale”.

In effetti, senza l’improvvisa accelerazione dell’autunno caldo non ci sarebbe stato lo statuto dei lavoratori del 1970, che si proponeva di sconfiggere l’eresia giuridica che faceva dello stato occupazionale e professionale acquisibile per contratto il prius e dello stato di cittadinanza il posterius, e, senza l’impetuosa ascesa del movimento femminista nel decennio successivo, si sarebbe continuato a considerare la sindrome anti-egualitaria che colpisce le società organizzate da e per uomini, se non un bene in sé, il loro indistruttibile connotato.

Pertanto, adesso che, come informano le cronache, la costituzione occupa stabilmente la piazza si fa fatica ad immaginarsi quel che avrebbe potuto succedere se ci fosse andata con la stessa continuità e la stessa carica di aggressività sin dal giorno della promulgazione, come l’Italia sarebbe cresciuta e cosa sarebbe oggi. Di sicuro, se il progetto di società elaborato dai padri costituenti tra il 1946 e il 1947 non fosse rimasto per tanto tempo  semi-sconosciuto ai più, anche se in età adulta, e se il suo processo attuativo avesse potuto contare su di una partecipazione di popolo meno episodica, il paese sarebbe migliore e comunque diverso. Viceversa, “l’atmosfera attorno alla Costituente”, scriveva nel 1946 Piero Calamandrei sulla rivista Il Ponte, “è brumosa: la gente ignora la sua attività e se ne disinteressa”.

Da qualche tempo, non è soltanto auto-consolatorio dirsi e dire che la nostra è una costituzione presbite. E’ realistico ritenere che abbia tracciato con buona approssimazione il disegno di un domani che il paese reale, non essendo nelle condizioni di comprenderlo un po’ per impreparazione e un po’ per i cattivi consigli che riceveva, nell’immediato non poteva nemmeno volere. Dopotutto, ai comuni mortali la costituzione non sembrava la risorsa di cui ci fosse più bisogno, perché ciò che è urgente prevale sistematicamente  su ciò che è importante.

Anche i padri costituenti, che non erano dei giacobini, lo sapevano, intuendo che, in democrazia, non è possibile anticipare il futuro con azioni che non siano fondate sul consenso. Uno di loro ce lo ha detto apertamente. E’ stato Vittorio Foa. Il quale, nel saggio che raccoglie le “riflessioni su una vita”, la sua vita, celebra l’apologia della mossa del cavallo, che metaforizza un modello dell’agire, “nella politica come in generale nella vita”.

Nel gioco degli scacchi, il cavallo “sembra il pezzo più debole perché copre al massimo otto quadri della scacchiera”, mentre la torre può arrivare a coprirne quattordici. Nel pensiero di Foa, torre e cavallo simboleggiano intransigenza e gradualità: la torre, “che procede in linea retta (…), va allo scontro su un terreno imposto”; invece, il salto laterale del cavallo, che “sposta lo scontro su terreni diversi”, è spiazzante. La gradualità, confessa Foa, “mi era sempre apparsa come una timidezza” e anzi, visto che l’intransigenza lo ha accompagnato per un lungo tratto del cammino, doveva essergli apparsa una fastidiosa manifestazione di pragmatismo di basso profilo od anche di opportunismo. “Da vecchio, però, mi rendo conto che è spesso qualcosa d’altro”: è considerazione degli altri e valutazione della necessità del loro concorso all’azione (…) e l’apporto della gente richiede tempo”.

Orbene, anche la gradualità del processo culminato nell’incontro odierno della costituzione con la piazza ha qualcosa a che fare con la mossa del cavallo, perché stiamo assistendo al “coinvolgimento del prossimo nella realizzazione di un progetto”. Ciononostante, non è semplice stabilire se sia la costituzione che alla fine ha catturato la piazza o la piazza ne abbia riscoperto il pathos per conto suo, trovandovi un inaspettato sostegno alle proprie rivendicazioni.

Ad ogni modo, non è nemmeno importante sciogliere il dubbio. Piuttosto, conta la certezza che il presbitismo della costituzione non è necessariamente un difetto: ai padri costituenti ha consentito di frequentare il futuro, come Antonio Tabucchi sostiene che a un certo punto imparò a fare Pereira. Infatti, a me piace pensare che gli italiani avrebbero preso l’abitudine di autoconvocarsi in piazza per sventolare venerabili principi anche senza sapere che sono prediletti dalla madre di tutte le leggi. Per questo, la prova conclusiva della felix culpa dei padri costituenti risiede proprio in ciò: i principi di eguaglianza e libertà di cui oggi si reclama il rispetto e l’attuazione sono gli stessi che una coscienza sociale largamente diffusa riscriverebbe oggi, se non fossero stati enunciati più di mezzo secolo fa. Fino ad ora, insomma, si sapeva che soltanto gli autori di certi romanzi fanno dire ad un personaggio: ti amavo anche prima di conoscerti.

(Da Eguaglianza & Libertà -www.eguaglianzaeliberta.it)(Eguagliuanza& LibertàE 

Umberto Romagnoli

Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight.