La sfida referendaria di Renzi

Sottotitolo: 
Un uomo solo al comando, che sente tutti ma non ascolta nessuno, decisionista e un po’ guascone.

È ormai indubbio: il referendum del 4 dicembre prossimo sarà un metareferendum. Sia nel campo del SÌ che in quello del NO è forte e predominante la tendenza a strumentalizzare l’esito della consultazione in chiave pro o contro il governo.

È tuttavia altrettanto evidente che l’origine di una tale, grave distorsione istituzionale sta nell'arroganza dimostrata da  Matteo Renzi, il quale, valutando il 41% conquistato dal PD alle europee come un dato di tendenza ormai acquisito, ha pensato bene di forzare su tutti i fronti, accentuando la strategia dell’uomo solo al comando, che sente tutti ma non ascolta nessuno, decisionista e un po’ guascone (“se pensano di spaventarmi…”, “non arretrerò di un centimetro”, “io tiro diritto”  e così via), legando le proprie sorti alla vittoria del sì e varando una legge elettorale da lui stesso definita la migliore del mondo, per poi, molto recentemente e a valle di sonore sconfitte elettorali, fare macchina indietro, giungendo addirittura a dire che neppure lui era d’accordo su tutti i punti (!).

La prova rischia concretamente di trascinare il Paese in una lotta senza quartiere per più di un mese di campagna elettorale forsennata, sulla quale spireranno i peggiori venti della faziosità italiana. Dal 5 dicembre sarà ancora più difficile riprendere a parlarsi e a discutere nel merito dei gravi problemi, soprattutto di giustizia sociale, che ci stano attanagliando da anni.

Né vale più la pena di insistere sulla intrinseca mancanza di correttezza istituzionale di un esecutivo che, dopo aver ritardato all’estremo il momento delle urne, dilaga in un campo di pretta competenza parlamentare qual è quello di un referendum sulla Costituzione, facendosi partito. La martellante presenza dello stesso Matteo Renzi su tutte le televisioni e in tutte le trasmissioni (mi pare manchino “La prova del cuoco”, “Protestantesimo” e poche altre in cui il Nostro non abbia ancora fatto la sua comparsa) dimostra con chiarezza l’ingente investimento fatto dal governo e, nello stesso tempo, i timori che esso nutre per l’esito della prova.

L’indecoroso endorsment di un Obama al tramonto, con tanto di “Cavalleria Rusticana” a far da introduzione alla cena di gala alla Casa Bianca, evento epocale per tutta la stampa nostrana e del tutto ignorato, ad esempio, dal New York Times e dai più importanti media stranieri, non è che un anticipo dei fuochi artificiali che il governo sta preparando per il Gran Finale.

Tutto ciò nonostante, è mia opinione che il voto sulla riforma della Costituzione debba essere espresso nel merito della proposta in quanto tale, senza logiche del tipo “après moi le déluge” o altri catastrofismi che non pagano, come dimostra la campagna terroristica di Cameron (e di Obama!) sulla Brexit e la successiva vittoria del Leave (a seguito del quale non mi pare che il Regno Unito sia sprofondato nel mare del Nord).

Nel merito, dunque, espongo qui alcune sparse riflessioni che spero possano essere utili a chi legge.

In via preliminare, va osservato che il testo di riforma è scritto proprio male; l’articolato appare in più punti confuso, prolisso e ridondante, con fastidiosi e frequenti riferimenti a commi e articoli precedenti e seguenti che ne rendono poco chiara e faticosa la lettura, soprattutto a chi non è un “addetto ai lavori”. Valga un esempio per tutti:

Art. 70 art. 10: La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere per le leggi di revisione della Costituzione e le altre leggi costituzionali, e soltanto per le leggi di attuazione delle disposizioni costituzionali concernenti la tutela delle minoranze linguistiche, i referendum popolari, le altre forme di consultazione di cui all’articolo 71, per le leggi che determinano l’ordinamento, la legislazione elettorale, gli organi di governo, le funzioni fondamentali dei Comuni e delle Città metropolitane e le disposizioni di principio sulle forme associative dei Comuni, per la legge che stabilisce le norme generali, le forme e i termini della partecipazione dell’Italia alla formazione e all’attuazione della normativa e delle politiche dell’Unione europea, per quella che determina i casi di ineleggibilità e di in compatibilità con l’ufficio di senatore di cui all’articolo 65, primo comma, e per le leggi di cui agli articoli 57, sesto comma, 80, secondo periodo, 114, terzo comma, 116, terzo comma, 117, quinto e nono comma, 119, sesto comma, 120, secondo comma, 122, primo comma, e 132, secondo comma. Le stesse leggi, ciascuna con oggetto proprio, possono essere abrogate, modificate o derogate solo in forma espressa e da leggi approvate a norma del presente comma.

Un vero capolavoro di prosa burocratese. Pressoché illeggibile, contorto e mal scritto, il testo sostituisce il limpido precedente: La funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere. Sancta simplicitas! Verrebbe da dire.

Continuando in ordine, all’Art. 55, art. 1 si legge: Ciascun membro della Camera dei deputati rappresenta la Nazione. Perché estrapolare questo concetto, già presente nell’art. 67 del Testo vigente che così recita: “Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”. A meno che non si sia voluto ribadire una sorta di ingiustificata minorità istituzionale dei Senatori, che sembrerebbero non più rappresentare pleno iure la Nazione. E poi: La Camera dei deputati è titolare del rapporto di fiducia con il Governo. Prima si diceva semplicemente: “il Governo deve avere la fiducia delle due Camere”.  L’essere titolare della fiducia esprime solo una condizione giuridica, non la necessità, da parte del governo, di avere la fiducia. Peraltro nell’art. 94 novellato si ribadisce, pur limitandolo alla Camera dei Deputati, che il governo deve avere la fiducia della Camera dei Deputati. A questo punto poco si capisce di quale rapporto con il Governo sia titolare il nuovo Senato, escluso dal voto di fiducia.

Nel lungo 4 comma si traccia il profilo istituzionale del nuovo Senato. Vi si parla di funzioni di raccordo tra lo Stato e gli altri enti costitutivi della Repubblica, aggiungendovi anche quelle, importantissime, relative ai rapporti con la UE. Il testo tuttavia pullula di termini generici (concorre, partecipa, valuta e verifica), ma le competenze specifiche restano molto fluide e assai poco definite.

È all’art. 57, art. 2 che compare qui l’aspetto forse più controverso della riforma: I Consigli regionali e i Consigli delle Province autonome di Trento e di Bolzano eleggono, con metodo proporzionale, i senatori fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei comuni dei rispettivi territori. I meccanismi elettorali restano imprecisati e si prevede saranno differenti da regione a regione, a seconda delle convenienze del momento.

Il modello costituzionale di riferimento è Bundesrat tedesco, ma, come si è fatto con la scimmiottatura inane del sistema scolastico duale germanico nella “Buona Scuola”, anche qui la ricopiatura è solo superficiale.  Sarebbe stato opportuno introdurre (tradurre?) anche il dettato degli artt. 50 e 51 della Costituzione tedesca, laddove si dice che “Durch den Bundesrat wirken die Länder bei der Gesetzgebung und Verwaltung des Bundes und in Angelegenheiten der Europäischen Union mit. “(Mediante il Bundesrat, i Länder concorrono alla formazione delle leggi e all’amministrazione dello Stato Federale, nonché alla gestione delle questioni relative all’Unione Europea).

Il Bundesrat, assai meno numeroso anche del Senato riformato (la BRD ha oltre 80 milioni di abitanti e i rappresentanti eletti sono 69 in tutto) è dunque la voce degli stati tedeschi all’interno di una repubblica a forte impronta federale. Si può dire lo stesso dell’Italia, la cui articolazione regionale vede in questo stesso testo di riforma un deciso ridimensionamento? Che senso ha allora stabilire che: La durata del mandato dei senatori coincide con quella degli organi delle istituzioni territoriali dai quali sono stati eletti, in conformità alle scelte espresse dagli elettori per i candidati consiglieri in occasione del rinnovo dei medesimi organi, secondo le modalità stabilite dalla legge di cui al sesto comma, senza tuttavia specificare con chiarezza, come si doveva in un testo costituzionale, che il Senato riformato diventa un organo permanente, che svolge la sua attività in modo continuativo, senza che questa sia organizzata in periodi di legislatura? Perché non scrivere esplicitamente che il nuovo Senato non riveste più il ruolo di seconda Camera, chiarendo bene che i suoi componenti sono tenuti, a differenza dei deputati, al vincolo di mandato ricevuto dai governi regionali? La dose di ambiguità e confusione è davvero grande.

Sempre allo stesso articolo si dice: Il Senato della Repubblica è composto da novantacinque senatori rappresentativi delle istituzioni territoriali e da cinque senatori che possono essere nominati dal Presidente della Repubblica. Si scende dunque da 315 a 100 membri ed è qui che si concentra il famoso risparmio sui costi della politica: 215 stipendi di senatori in meno, per un totale di una quarantina di milioni di Euro all’anno circa.

Dei 100 fanno parte anche i 5 senatori “eventualmente” nominati dal Presidente della repubblica, che tuttavia restano in carica per un solo settennio (art.59, art. 3, 2 c.). Soluzione bizzarra questa, dato che la nomina continua ad avvenire per meriti particolarmente rilevanti e significativi per il Paese, acquisiti in modo permanente in anni di attività professionale. Così legiferando, è come se si volesse conferire un premio Nobel con data di scadenza. Inoltre la presenza di personalità di nomina presidenziale, dato il loro profilo, si vedrebbe meglio all’interno della Camera dei deputati piuttosto che in un’assemblea resa periferica e ridimensionata nei suoi poteri. Meglio allora eliminare del tutto questa prerogativa del Capo dello Stato oppure trasferire le cinque nomine alla Camera dei deputati, conservandone però la durata a vita.

Al successivo art. 64, art. 6, c. 2 si aggiunge al testo in vigore: I regolamenti delle Camere garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari. Il regolamento della Camera dei deputati disciplina lo statuto delle opposizioni. Perché specificare che i regolamenti garantiscono i diritti delle minoranze parlamentari? Le minoranze parlamentari si formano nel corso dei lavori d’aula e sono già tutelate dalla legislazione vigente. A quali circostanze ci si vuole riferire? E che cosa sarebbe poi lo statuto delle opposizioni? La codificazione di una sorta di “diritto di tribuna” destinato a contenere ruolo ed efficacia di chi si oppone al governo?

All’art. 69 art. 9: I membri della Camera dei deputati ricevono una indennità stabilita dalla legge. E i senatori? Non è stato affatto messo nero su bianco, così come era stato promesso, che la partecipazione alle sedute del nuovo Senato non prevede oneri ulteriori a carico dello Stato e delle Regioni. In tal modo si spalancano le porte a indennità che graveranno certamente sui bilanci regionali, per cui la famose riduzione dei costi della politica rischiano di trasformarsi in un mero trasferimento delle spese in altri capitoli di bilancio.

Tornando al modello monocamerale tedesco e all’equivoca imitazione italiana, all’art. 70, art. 10, c. 3, si legge: Ogni disegno di legge approvato dalla Camera dei deputati è immediatamente trasmesso al Senato della Repubblica che, entro dieci giorni, su richiesta di un terzo dei suoi componenti, può disporre di esaminarlo. Nei trenta giorni successivi il Senato della Repubblica può deliberare proposte di modificazione del testo, sulle quali la Camera dei deputati si pronuncia in via definitiva. Qualora il Senato della Repubblica non disponga di procedere all’esame o sia inutilmente decorso il termine per deliberare, ovvero quando la Camera dei deputati si sia pronunciata in via definitiva, la legge può essere promulgata. Vi è qui la riprova che il bicameralismo non è stato abolito, solo reso più complesso e opinabile. Dopo i dieci giorni per la trasmissione di ogni testo di legge (quindi anche relativo a materie che non competono più al Senato) più i trenta giorni della deliberazione, il testo torna alla Camera, che si pronuncia “in via definitiva”, ma entro un tempo che, in questo caso, resta indefinito. Come contentino, il Senato della Repubblica può, secondo quanto previsto dal proprio regolamento, svolgere attività conoscitive, nonché formulare osservazioni su atti o documenti all’esame della Camera dei deputati. Cosa saranno mai queste attività conoscitive? E che fine faranno le osservazioni dei senatori? Semplici flatus vocis?

Ancora un elemento di bicameralismo sopravvive all’ art. 71, art. 11: Il Senato della Repubblica può, con deliberazione adottata a maggioranza assoluta dei suoi componenti, richiedere alla Camera dei deputati di procedere all’esame di un disegno di legge. In tal caso, la Camera dei deputati procede all’esame e si pronuncia entro il termine di sei mesi dalla data della deliberazione del Senato della Repubblica.

L’art. 71, art. 11, c.3 recita: Il popolo esercita l’iniziativa delle leggi, mediante la proposta, da parte di almeno centocinquantamila elettori, di un progetto redatto in articoli.  Le leggi di iniziativa popolare possono dunque, con il nuovo testo, venir proposte con la firma di 150.000 elettori, il triplo di quante ne occorrono attualmente. Anche questo elemento di democrazia diretta viene reso meno efficace e di più difficile percorribilità.

L’art. 72, art. 12 rivela con chiarezza lo scivolamento della Carta verso un’accentuazione discrezionale dei poteri dell’esecutivo a scapito della discussione parlamentare: Il Governo può chiedere alla Camera dei deputati di deliberare, entro cinque giorni dalla richiesta, che un disegno di legge indicato come essenziale per l’attuazione del programma di governo sia iscritto con priorità all’ordine del giorno e sottoposto alla pronuncia in via definitiva della Camera dei deputati entro il termine di settanta giorni dalla deliberazione. Chi stabilisce l’essenzialità di un disegno di legge? Esistono dei DDL non essenziali per l’azione di governo e dunque sostanzialmente superflui e trascurabili?

All’art. 75 art. 15 si modificano le norme relative ai referendum popolari abrogativi: È indetto referendum popolare per deliberare l’abrogazione, totale o parziale, di una legge o di un atto avente forza di legge, dove a ““valore di legge” del testo vigente si sostituisce “forza di legge”: si è voluto allargare la potestà abrogativa anche ad atti che non hanno valore di leggi, pur avendone la forza? Per quale ragione? Poi si prosegue: La proposta soggetta a referendum è approvata se ha partecipato alla votazione la maggioranza degli aventi diritto o, se avanzata da ottocentomila elettori, la maggioranza dei votanti alle ultime elezioni della Camera dei deputati e se è raggiunta la maggioranza dei voti validamente espressi. Qui, se da un lato sembra rafforzarsi la potestà del verdetto popolare, la cui platea non è più ancorata al 50% + 1 degli aventi diritto, ma al 50% + 1 dei votanti alle ultime elezioni alla Camera, dall’altro essa è tuttavia bilanciata da un considerevole aumento delle firme necessarie, che passano da 500.000 a 800.000.

All’art. 78, art. 17 La Camera dei deputati delibera a maggioranza assoluta lo stato di guerra e conferisce al Governo i poteri necessari. Pur trattandosi di una possibilità sperabilmente remota, appare singolare l’esclusione del Senato da una deliberazione così importante, come pure la seguente (art. 79, art 18) su amnistia e indulto.

La deminutio dei poteri del Senato continua all’art. 80, art. 19: La Camera dei deputati autorizza con legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di natura politica, o prevedono arbitrati o regolamenti giudiziari, variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi o importano variazioni del territorio od oneri alle finanze o modificazioni di leggi. Le leggi che autorizzano la ratifica dei trattati relativi all’appartenenza dell’Italia all’Unione europea sono approvate da entrambe le Camere. Il Senato viene dunque escluso dalla ratifica dei trattati internazionali, laddove ha una sua precisa sfera di competenza nelle questioni europee, che, evidentemente, con un eccesso di ottimismo, vengono considerate “interne” e di tipo regionalistico. Ancora un’imitazione senza sostanza del modello tedesco, all’interno del quale esistono “stati regionali”, non mere “istituzioni territoriali”.

Sfugge poi la ratio della modifica alle procedure di elezione  del Capo dello Stato, dalla ben più semplice formulazione precedente (due terzi per le prime tre votazioni, dal quarto maggioranza assoluta), all’aggiunta di una fase intermedia (dal quarto al settimo scrutinio, maggioranza di 3/5 dell’assemblea) e di una fase ultima in cui occorrono i 3/5 dei votanti (art. 83 art. 21): L’elezione del Presidente della Repubblica ha luogo per scrutinio segreto a maggioranza di due terzi della assemblea. Dal quarto scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dell’assemblea. Dal settimo scrutinio è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti. Si tratta sempre dell’applicazione del mantra renziano del “far presto”?

Dall’art. 88, art. 24 (Il Presidente della Repubblica può, sentito il suo Presidente, sciogliere la Camera dei deputati) si può dedurre la natura di organo permanente del Senato riformato, non più sottoposto ai meccanismi di legislatura. Resta la mancanza di chiarezza nel definire questa forte sconnessione tra i due rami del Parlamento.

Con l’art. 99 art. 28 si abolisce il CNEL. Tutti festeggiano, dimenticando che si tratta di un organo di riequilibrio e raccordo dei poteri che i Padri costituenti vollero di alto profilo politico, giuridico e culturale. La sua mediocre gestione nel corso degli anni, diventata insignificanza e spreco di risorse, non giustifica di per sé la sua abolizione. Semmai sarebbe stato necessario procedere a una sua riforma radicale. Né si può giustificare, sul piano costituzionale, una modifica per ottenere risparmi di bilancio.

L’art. 114, art. 29 sancisce l’abolizione delle province: La Repubblica è costituita dai Comuni, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato. Gli organi di governo delle nuove Città Metropolitane vengono eletti con meccanismi di secondo livello, analoghi a quelli destinati a eleggere il Senato. Quanto poco verificabili e valutabili dai cittadini essi siano si è visto in questi giorni, con il quasi assoluto silenzio in cui si stanno svolgendo le operazioni di voto e la mancanza di ogni controllo da parte del corpo elettorale. Si intravvede cosa accadrà con il nuovo Senato in termini di democrazia e partecipazione.

Con l’art. 117, art. 31, si determina un forte ri-accentramento di prerogative e competenze legislative attribuite prima alle regioni, che sono oggi escluse dalla maggior parte degli ambiti di intervento, con l’eliminazione totale della legislazione concorrente. Questo nel momento in cui si vuole dar vita a una Camera delle istituzioni territoriali (Senato).

Tale ri-accentramento nasce peraltro dalla pur fondata constatazione del malfunzionamento delle regioni stesse, rivelatesi fonti di sprechi e di cattiva gestione delle risorse pubbliche, ma non da un nuovo disegno istituzionale dello Stato. Il federalismo pare sia stato definitivamente abbandonato, ma sostituito da cosa?

L’ art. 122 art. 35 è uno dei vanti dell’esecutivo: I relativi emolumenti [dei consiglieri regionali sono ristretti] nel limite dell’importo di quelli attribuiti ai sindaci dei Comuni capoluogo di Regione. Mi chiedo perché inserire in Costituzione un provvedimento che poteva essere tranquillamente lasciato alla legislazione ordinaria.

Con l’art. 131, invece di aggredire con coraggio i centri di spesa costituiti dalle troppo numerose regioni, da un lato le si depotenzia e dall’altro le si lascia intatte nel numero, rinunciando così a una concreta misura per ottenere risparmi davvero importanti, anche in termini di efficacia ed economicità, come sarebbe stata quella di un raggruppamento delle attuali venti in quattro-cinque macroregioni (più i territori a statuto speciale).
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In estrema sintesi, il testo della riforma costituzionale appare redatto sotto la spinta di esigenze politiche esterne e contingenti. Affidare la Costituzione, cioè a dire “la grammatica della Repubblica” alle convenienze politiche del momento, scaricando sull’attuale testo costituzionale le colpe, tutte e solo politiche, della crisi economica, sociale e culturale in cui versa il Paese a me pare un’operazione ad alto rischio.

L’Italia si fa qui interlocutrice di un’Europa neo-liberista, capace di tutelare solo il sistema finanziario e gli investitori globali, come peraltro venne esplicitamente richiesto con la lettera diktat del 2011 ai capi di governo europei, e che persegue altrettanto esplicitamente la riduzione sistematica degli spazi della politica e il deciso rafforzamento degli esecutivi a scapito dei Parlamenti.

Il testo di riforma si muove proprio in questa direzione; vi si fa l’occhietto all’antipolitica, (vedi lo scandaloso argomento del “risparmio costituzionale”), si avalla l’idea che la velocità e non la riflessione sia il pregio di chi governa, quasi che il nodo della politica italiana sia accrescere il numero delle leggi e non di de-legificare i processi legislativi già in atto. Il fossato già scavatosi tra i cittadini e le istituzioni rischia di approfondirsi ulteriormente, con imprevedibili conseguenze, che potrebbero rivelarsi anche drammaticamente eversive.

Claudio Salone

Professor of ancient literatures, Rome - https://claudiosalone39.wordpress.com/