La socialdemocrazia e il Modello Sociale Europeo

Sottotitolo: 
Questo testo è il capitolo conclusivo del saggio  pubblicato  fra i Papers:di Insight col ltitolo: "Ascesa e declino del socialismo", 

L'etichetta di socialdemocrazia si applica ad un'economia pienamente capitalista con una politica economica attiva del governo, una quota consistente anche se minoritaria di proprietà e impresa pubblica, una politica monetaria e fiscale diretta a promuovere investimenti e occupazione, il ricorso se necessario a controlli diretti, la responsabilita’ dello stato sociale per la sanita’, l'istruzione, le pensioni e la disponibilita’ di abitazioni a prezzi accessibili, con misure di ridistribuzione del reddito per alleviare la povertà e la disuguaglianza. Queste misure sono basate su un imperativo politico e morale - anche se politiche e realizzazioni simili devono essere accreditate politicamente e moralmente anche a governi conservatori o liberali, da Bismarck a Macmillan, allo scopo di assicurare la pace sociale in un sistema capitalista.

Anche la socialdemocrazia ha sofferto, sia pure in misura minore del socialismo, della pretesa che le leggi economiche possano essere sospese o ignorate. Ciò vale sia per l'estrema sinistra – ad esempio con Potere Operaio in Italia che raccomandava ai lavoratori la strategia del “rifiuto al lavoro”, come se tutti potessero aspirare alla condizione di rentiers, oppure con lo slogan del maggio parigino del 1968 “Soyez réalistes, demandez l'impossible” – sia per il socialismo democratico. Per esempio, alla Conferenza del Partito Laburista a Blackpool nel 1949, Bevan dichiarava che "Il linguaggio delle priorità è la religione del socialismo", confermando il pensiero confuso e l'abbandono di una corretta valutazione economica delle alternative strategiche da parte dei leaders social-democratici.  

Per lungo tempo, fino a quando il New Labour e’ andato al governo nel Regno Unito (1997) raramente i socialdemocratici si sono chiesti se ci fossero dei limiti di fattibilità allo stato sociale; o hanno considerato la possibilità e le implicazioni di comportamenti opportunistici (il cosiddetto moral hazard o rischio morale). O se un'economia capitalista possa prosperare e crescere senza margini di profitto sufficienti sia a finanziare che a incentivare gli investimenti. Se un'economia aperta al commercio e agli investimenti internazionali non debba preoccuparsi della propria competitività internazionale. Se ci siano o meno dei limiti - anche se flessibili, ma proprio per questo pericolosamente incerti - alla spesa pubblica, finanziata sia da un aumento del debito pubblico sia mediante l'inflazione. Se le imprese pubbliche abbiano un ruolo di promozione dello sviluppo non solo in settori strategici come la produzione di energia e di acciaio, o lo sviluppo di nuove tecnologie, ma anche in settori come il tessile o l’alimentare.

I sindacati, che sono una forza propulsiva della socialdemocrazia, hanno manifesti conflitti di interessi con il resto della popolazione che non ne fa parte, in quanto rappresentano solo una parte (in continua diminuzione) dei lavoratori dipendenti, con una prevalenza maschile. Quando gli scioperi interrompono la produzione di merci che continuano a essere disponibili attraverso le scorte esistenti i lavoratori infliggono un costo al proprietario dell’impresa, e in questo modo possono aumentare le loro probabilita’ di vittoria; ma quando gli scioperi riguardano servizi essenziali (trasporti, sanita’, istruzione) il danno preminente ricade sugli utenti (viaggiatori, malati, alunni), e’ per lo piu’ controproducente, aliena il pubblico e deve necessariamente essere limitato e regolamentato.

E’ vero che a volte i sindacati hanno riconosciuto che ci sono limiti alla compatibilita’ delle rivendicazioni salariali con la lotta all’inflazione e la promozione dell’occupazione e dello sviluppo: ad esempio molti sindacati italiani hanno riconosciuto che il salario non e’ una “variabile indipendente” dell’economia capitalista ma e’ soggetta alla compatibilita’ con altri obiettivi. Piu’ spesso tuttavia i sindacati si pongono obiettivi impossibili, come il mantenimento dei posti di lavoro in imprese fallimentari o in situazioni di crisi, anche se dovrebbero rendersi conto delle implicazioni economiche delle loro posizioni negoziali.

Nonostante tutte queste limitazioni, il modello socialdemocratico si e’ affermato e ha avuto una buona riuscita in diversi paesi dell’Europa occidentale, in una forma che veniva designata ex post come “Modello Sociale Europeo” (ESM). Il Trattato di Roma (1957) non contemplava sviluppi sociali; successivamente il coordinamento dei sistemi di sicurezza sociale dei paesi membri veniva trascurato, o bloccato dall’opposizione del Regno Unito, compresa la creazione di un espace social europeen auspicato da Jacques Delors. Solo nel 1989 veniva approvata – con l’astensione britannica – una Carta che garantiva diritti sociali minimi, sotto forma di una dichiarazione politica non vincolante (Vaughan-Whitehead 2003).

Un documento del Consiglio Europeo di Nizza (2000) afferma che “Il modello sociale Europeo, caratterizzato in particolare da sistemi che offrono un grado elevato di protezione sociale, dall’importanza del dialogo sociale e dai servizi di interesse generale che coprono attivita’ essenziali per la coesione sociale, oggi e’ basato, al di la’ della diversita’ dei sistemi sociali dei singoli Stati Membri, su un nocciolo comune di valori” (para 11, p. 4; vedi Giannetti-Nuti 2007). Questa caratterizzazione era sottolineata nel summit di Barcellona del 2002 e in molte altre occasioni, vedasi per esempio European Parliament (2006).

Freeman (2005) fornisce un’analisi comparativa del modello economico statunitense e il modello sociale europeo. In molti aspetti le due economie sono come “due piselli dello stesso baccello”: sistemi di capitalismo avanzato, stati di diritto che proteggono la proprieta’ privata, garantiscono la liberta’ di associazione, con vari gradi di sicurezza sociale e di welfare, che combinano “regole istituzionali e mercati per determinare i risultati economici. La differenza e’ nel peso che essi attribuiscono alle istituzioni rispetto ai mercati, non nelle differenze qualitative come quelle che dividevano il capitalismo dalla pianificazione comunista di stato” (Freeman 2005, p. 3).

Per Freeman (2005) l’economia statunitense, nella sua forma idealizzata, si conforma alla teoria neoclassica dei mercati, in cui “la Mano Invisibile delle entrate e delle uscite [delle imprese] determina i risultati”. Gli iscritti ai sindacati sono ridotti a un basso livello e salari ed occupazione sono largamente regolati dai mercati. La politica di occupazione e salari delle imprese non viene negoziata con i dipendenti, che la possono solo prendere o lasciare.  I mercati dei prodotti sono poco regolati e le imprese entrano ed escono facilmente. L’occupazione e’ la forma primaria di protezione sociale, compreso l’accesso alla sanita’. L’attivita’ e i fondi delle universita’ dipendono dalle esigenze delle comunita’ degli affari.

Il sistema europeo, invece, “si basa maggiormente su istituzioni non di mercato ma di ‘voce’ per determinare i risultati, soprattutto nel mercato del lavoro” (ibidem, p. 3; il riferimento alla voce e’ tratto da Hirshman 1970). L’UE prevede un dialogo fra i partners sociali al livello dell’impresa attraverso i Works Councils (EC 94/45/EC), a livello settoriale e inter-professionale attraverso i Social Dialogue Committees, a livello aggregato attraverso Standing Employment Committee e (per la sicurezza sociale) gli Advisory Committees; ci sono anche Occupational Health and Safety committees. I salari sono determinati dalla contrattazione collettiva con accordi fra le federazioni dei datori di lavoro e dei lavoratori, che si applicano anche a imprese che non vi partecipano. L’entrata e l’uscita delle imprese e i licenziamenti di lavoratori sono (o meglio lo erano fino all’involuzione iperliberista dell’Unione negli anni 2000) soggetti ad ostacoli amministrativi nella maggior parte dei paesi dell’UE. Il finanziamento dello stato del benessere richiede imposte piu’ elevate. L’istruzione superiore e’ finanziata e organizzata dal governo, con minore importanza e supporto da parte del mondo degli affari. Judt (2005) sostiene che il Modello Sociale Europeo e’ “cio’ che lega insieme gli Europei”: “Siamo cosi’ impegnati a ricordare tutto quello che gli stati fanno male, che abbiamo dimenticato quello che fanno bene... Il modello Anglo-Americano con il suo culto della privatizzazione e’ non solo disfunzionale [dysfunctional] eticamente, ma sara’ presto riconosciuto come disfunzionale economicamente”.

Un problema fondamentale, nella comparazione di sistemi economici, e’ di determinare in che misura differenze di performance possono essere attribuite a differenze istituzionali (Freeman 2005). Tuttavia Freeman sottolinea che gli Stati Uniti hanno superato l’UE negli anni ’90 fino alla meta’ degli anni 2000, ma alcuni dei paesi piu’ piccoli dell’UE (come Irlanda, Austria, Paesi Bassi e Danimarca) hanno avuto una performance esemplare nello stesso periodo, mentre l’UE aveva superato gli USA dagli anni ’50 fino alla fine dei ’90. Anche Eichengreen (2006) nota che l’andamento relativo dei due sistemi dipende strettamente dal periodo prescelto.  La disuguaglianza dei redditi era inferiore nell’UE rispetto agli USA, e l’UE forniva un servizio migliore di sanita’ universale a un costo inferiore che negli USA. Dall’inizio del secolo alla crisi del 2007 l’Eurozona aveva creato piu’ posti di lavoro degli Stati Uniti (The Economist, 27 gennaio 2007; la posizione veniva rovesciata negli anni successivi, principalmente a causa delle diverse politiche macroeconomiche adottate per fronteggiare la Grande Recessione e della crisi dell’Eurozona).

Il Modello Sociale Europeo ciononostante veniva assoggettato a critiche particolarmente dure. Goodin (2003), ad esempio, sostiene che tutte le Economie Coordinate di Mercato  sono “naturalmente condannate all’estinzione”, perche’ il coordinamento raggiunto senza ricorrere ai mercati richiede molto tempo per la sua realizzazione ma puo’ essere distrutto rapidamente; il sistema  e’ vulnerabile e instabile, e “alla fine le Economie di Mercato Liberali prevarranno”. Shackleton (2006) classsifica il modello non tanto come “una categoria descrittiva, ma piuttosto un’aspirazione” – una critica giustificata dal fatto che le caratteristiche del modello non hanno mai fatto parte dell’acquis communautaire, ossia degli obblighi statutari degli Stati Membri. Tuttavia Shackleton al tempo stesso considera il modello come responsabile del lento sviluppo dell’EU, la bassa creazione di posti di lavoro e la maggiore disoccupazione (guardando solo agli anni 1003-2005. Egli attribuisce questi problemi alle rigidita’ dei mercati del lavoro e dei prodotti, l’alto livello di tassazione e spesa pubblica e il coinvolgimento delle parte sociali: il modello “e’ in crisi” e “non ha un futuro”.

In realta’ il Modello Sociale Europeo venne ad affievolirsi e praticamente a terminare come tendenza generale a causa di altri motivi: il carattere non obbligatorio delle sue caratteristiche, gia’ rilevato; la diluizione del modello attraverso l’allargamento dell’Unione ai paesi iper-liberali della transizione post-socialista dal 2004 in poi; la riduzione del potere contrattuale dei lavoratori a causa della globalizzazione che aumentava la concorrenza mondiale del lavoro attraverso migrazioni, de-localizzazione della produzione e soprattutto commercio estero; la progressiva diffusione dell’iper-liberalismo e dell’austerita’ nell’UE, e la Grande Recessione iniziata nel 2007 che ancora imperversa.

Di tanto in tanto, intermittentemente, le istituzioni europee riaffermano vaghi principi che corrispondono al disegno originale di un Modello Sociale Europeo.  Ad esempio, il 17 novembre 2017 il Parlamento Europeo, il Consiglio Europeo e la Commissione Europea proclamavano un European Pillar of Social Rights in Gothenburg.  L’idea alla base di questa iniziativa era che la stabilita’ dell’Eurozona richiede una effettiva capacita’ di stabilizzazione in ognuno degli stati che ne fanno parte: per cominciare, generosi sussidi di disoccupazione, la fine della segmentazione del mercato del lavoro (fra lavoro precario a tempo determinato e lavoro a tempo indeterminato); l’attivizzazione dei disoccupati; la ri-assicurazione dei sistemi nazionali di assicurazione contro la disoccupazione.  Si riconosceva altresi’ la presenza di una esternalita’: un paese che si assicura contro la disoccupazione beneficia anche i paesi vicini.

Ufficialmente il Pillar del 2017 e’ estremamente ambizioso, e dovrebbe “realizzare nuovi e piu’ effettivi diritti per i cittadini”; il Presidente Juncker chiedeva la sua approvazione “per evitare frammentazione sociale e dumping sociale”. Manca tuttavia un disegno coerente di Unione Sociale Europea, un progetto di legislazione europea obbligatoria; tutti questi bei principi rimangono la responsabilita’ individuale e volontaria degli Stati Membri.

Socialdemocrazia pervertita: globalista, austeritaria, ineguale

Verso la fine degli anni 1990 la caduta del muro di Berlino e la vittoria apparentemente definitiva dell’iper-liberismo hanno provocato una conversione tardiva ed esagerata della socialdemocrazia all’iper-liberismo.

Questo è accaduto prima nei paesi della transizione post-socialista da parte di governi sia di destra che di sinistra, poi in Europa occidentale sotto la guida del New Labour di Tony Blair e la sua Terza Via, replicata in Germania dal Neue Mitte di Gerhard Schroeder. Entro la fine del 1998, 13 dei 15 Stati allora membri dell'UE (ad esclusione dell’Irlanda e della Spagna) avevano un governo socialdemocratico o di coalizione di centro-sinistra; i socialdemocratici ottenevano una posizione dominante anche nel Parlamento europeo, che perdevano prontamente nel 1999. Una simile strategia si ritrova nelle politiche seguite da Bill Clinton negli Stati Uniti (Meeropol 2000).

Tony Blair e Gerhard Schroeder riaffermavano il proprio impegno a sostenere i valori socialisti tradizionali: “Equità e giustizia sociale; la libertà e l'uguaglianza di opportunità; la solidarietà e la responsabilità verso gli altri: questi valori sono permanenti. La socialdemocrazia non li sacrifichera’ mai” (Blair e Schroeder, 1999, p. 2).

Tuttavia il loro progetto socialdemocratico differiva drasticamente dalla socialdemocrazia tradizionale in tre aspetti principali:

1) L'accettazione del primato e della desiderabilità dei mercati, interni e internazionali, riconoscendo pienamente la loro natura globale nel mondo moderno. “Il mercato è parte della organizzazione sociale che desideriamo, non solo un mezzo necessario di cui ammettiamo a malincuore il bisogno e che dobbiamo dominare” (Karlsson 1999). In questo modo si trascuravano le implicazioni distributive nazionali e globali della allocazione delle risorse secondo il mercato. Peter Mandelson – Business Secretary e Commissario Europeo per il Commercio – nel 1998 dichiarava: “Siamo intensamente rilassati circa gente che diventa eccezionalmente ricca (filthy rich) – purche’ paghino le loro imposte”, ma nel 2012 ammetteva che non avrebbe ripetuto queste affermazioni “spontanee e avventate (unthoughtful)” perche’ “la globalizzazione non ha generato redditi crescenti per tutti" (The Guardian 26/1/2012).

La convinzione che la globalizzazione comporta benefici per tutti, che sia una marea che solleva tutte le barche, che in ogni caso i benefici di chi li riceve per primo colano (trickle down) sul resto della popolazione, e’ molto diffusa (e.g. Yergin and Stanislav 1998). In realta’ la liberalizzazione del commercio internazionale comporta indubbiamente dei benefici netti, ma al tempo stesso infligge perdite nette ad alcuni dei soggetti nazionali che vi partecipano. La semplice possibilita’ teorica di una sovra-compensazione dei perdenti da parte dei vincenti non e’ sufficiente a dichiarare un miglioramento del benessere generale, per il quale e’ fondamentale che la sovra-compensazione sia effettiva. E proprio a livello internazionale le possibilita’ pratiche di sovra-compensazione sono limitate dalla mancanza di organi sovranazionali di ridistribuzione; senza contare che anche quando questa sovra-compensazione fosse possibile potrebbe implicare trasferimenti inegualitari e quindi discutibili da vincenti poveri a perdenti relativamente piu’ ricchi.  Infine i vantaggi della liberalizzazione del commercio non si estendono necessariamente alla liberalizzazione degli investimenti, dei movimenti di capitale finanziario e delle migrazioni di lavoratori, ne’ alla regolamentazione di standards, concorrenza e giurisdizione (Rodrik 2018a).

2) L’abbandono della proprietà pubblica e dell’impresa pubblica, a sostegno all'imprenditoria privata e di una decisa e continuata privatizzazione del patrimonio statale. ”Il governo fa tutto il possibile per sostenere l’impresa ma non crede di potersi sostituire ad essa ... vogliamo una società che celebri imprenditori di successo così come fa con artisti e calciatori – e  apprezzi la creatività in tutte le sfere della vita” (Blair e Schroeder, 1999). Le privatizzazioni hanno comportato l’abdicazione del ruolo imprenditoriale dello stato nella ricerca e nell’innovazione (Mazzucato 2011, 2013), la privatizzazione di servizi pubblici essenziali e la diffusione di public private partnerships (PPP) che collettivizzano il rischio e privatizzano il profitto, la distruzione delle building societies e dell’intero settore mutualistico mediante la privatizzazione di un capitale che a rigore non apparteneva allo stato ma al pubblico dei soci. Tutte queste distorsioni hanno presto dimostrato i limiti e gli svantaggi di questo approccio.  E soprattutto, i fautori della Terza Via insistevano sulla

3) Fattibilita’, nel senso di disciplina fiscale e di una politica monetaria restrittiva, respingendo cosi’ sia le politiche Keynesiane di deficit pubblico finanziato col debito, sia l'espansione monetaria inflazionistica.  “Una finanza pubblica sana dovrebbe essere un motivo di orgoglio per i socialdemocratici”. “... la spesa in deficit non può essere utilizzata per superare le debolezze strutturali dell'economia che sono un ostacolo a uno sviluppo più rapido e una maggiore occupazione. I socialdemocratici, inoltre, non devono tollerare livelli eccessivi di debito pubblico, che impone un onere eccessivo sulle generazioni future e potrebbe avere altri effetti distributivi indesiderati. Tutto il denaro speso per il servizio del debito pubblico elevato non è disponibile per altre priorità [sic] tra cui un aumento degli investimenti in educazione, formazione o infrastrutture dei trasporti”. (Blair e Schroeder 1999, p. 10). Queste affermazioni sbalorditive escludono interventi anticiclici qualunque sia la fase della congiuntura, danno per scontati effetti intergenerazionali inesistenti o esagerati e in ogni caso discutibili, confondono obiettivi con “priorita’” e presumono che siano gli obiettivi piu’ importanti a essere necessariamente sacrificati dalla disciplina fiscale e monetaria.

Questi vincoli fiscali inizialmente trovavano un forte sostegno in due filoni di teoria economica che comparirono negli anni ’90 e ’00, sul presunto “consolidamento fiscale espansivo” (vedasi ad esempio Giavazzi e Pagano 1990, 1996) e sulla presunta esistenza di una soglia del debito pubblico al 90% del PIL annuale, oltre la quale il debito eserciterebbe un impatto negativo sullo sviluppo del PIL (Reinhart e Rogoff 2010).

Il consolidamento fiscale – ossia la riduzione del deficit pubblico mediante tagli di spesa e/o aumenti di imposte – avrebbe dovuto promuovere lo sviluppo del settore privato con la riduzione dello spiazzamento (crowding out) della spesa privata, l’attesa di riduzioni futuri di imposte (dovute all’equivalenza Ricardiana di prestiti e imposte nel finanziamento della spesa pubblica), una maggiore fiducia nel futuro, riduzioni del tasso di interesse, la promozione di esportazioni mediante svalutazione della moneta. Se non che nel 2012 dei ricercatori del FMI rivedevano le stime dei moltiplicatori fiscali dei paesi dell’OCSE, che nei venti anni precedenti le organizzazioni internazionali avevano stimato intorno a una media di 0,5, al rialzo in un ambito dello 0,9-1,7. Questa revisione era attribuita alla recessione, alle rigidita’ dei tassi di cambio soprattutto nell’Eurozona, e al simultaneo consolidamento fiscale in un gran numero di paesi (IMF 2012, Blanchard e Leigh 2013).

In conseguenza di questo rialzo dei moltiplicatori fiscali il costo del consolidamente fiscale risultava essere stato grandemente sotto-stimato. Per di piu’ Nuti (2013b) dimostra che, per un moltiplicatore fiscale maggiore dell’inverso del rapporto Debito Pubblico/PIL, il consolidamento fiscale necessariamente fa aumentare anziche’ diminuire il rapporto Debito Pubblico/PIL rispetto a quello che si sarebbe avuto senza tale consolidamento. Sulla base delle statistiche ufficiali, ipotizzando moltiplicatori nazionali uguali alla media ricalcolata dal FMI, questo effetto perverso del consolidamento fiscale varrebbe per tutti i paesi sviluppati ad eccezione dell’altamente indebitato Giappone. Il consolidamento fiscale quindi ridurrebbe il rapporto Debito Pubblico/PIL solo nei paesi meno indebitati, che meno avrebbero bisogno di un consolidamento. Mentre un circolo vizioso rischia di essere messo in moto, quando il consolidamento fiscale fa aumentare il rapporto Debito Pubblico/PIL spingendo i governi ad adottare ulteriori consolidamenti fiscali nonostante i loro effetti perversi. Senza contare che il mantenimento e l’aumento del gap fra reddito potenziale ed effettivo scoraggia l’investimento e quindi fa rallentare sia lo sviluppo potenziale che quello effettivo.

La nozione di una soglia al debito pubblico oltre la quale si comprometterebbe la capacita’ di sviluppo era basata su un nuovo insieme di dati per 44 paesi su un periodo di circa duecento anni, che incorporava “oltre 3700 osservazioni annuali che coprivano un’ampia gamma di sistemi politici, istituzioni, regimi di cambio e circostanze storiche”; Reinhart e Rogoff trovavano che “la relazione fra il debito del governo e lo sviluppo reale del PIL e’ debole per rapporti Debito/PIL inferiori a una soglia del 90% del PIL. Sopra al 90% i tassi mediani di sviluppo cadono dell’1%, e lo sviluppo medio considerevolmente di piu’” (pp. 22-23).

Tuttavia Herndon et al. (2013) che replicavano l’analisi di Reinhart-Rogoff utilizzando gli stessi dati originali, trovavano che questi autori avevano escluso selettivamente i dati disponibili per vari paesi Alleati – come il Canada, la Nuova Zelanda e l’Australia – che emergevano dalla Seconda Guerra Mondiale con un debito elevato ma cionondimeno esibivano un solido sviluppo. Al tempo stesso alle statistiche relative era stato assegnato lo stesso peso indipendemente dalla durata di debito elevato e di andamento dello sviluppo, distorcendo anche cosi’ i risultati. Herndon et al. (2013) concludono che “... quando venga calcolato in modo appropriato, il tasso medio di sviluppo reale del PIL per i paesi caratterizzati da un rapporto Debito Pubblico/PIL superiore al 90% e’ in realta’ del 2,2% e non dello 0,1% come pubblicato da Reinhart e Rogoff”; mentre “il tasso medio di sviluppo reale del PIL per i paesi con un rapporto Debito Pubblico/PIL superiore al 90% non e’ drammaticamente diverso da quando quei rapporti sono inferiori” (p. 1).

Purtroppo questo sorprendente, cumulativo e definitivo discredito di ambedue le tesi, di un consolidamento fiscale espansivo e di una soglia del 90% del PIL alla sostenibilita’ del debito, non sembrano avere avuto un impatto sulle politiche socialdemocratiche in generale e soprattutto nell’Unione Europea e nell’Eurozona. Nei paesi meridionali dell’Eurozona, il supporto o anche la sola acquiescenza dei socialdemocratici alla costituzione prematura della Moneta Unica, prima della necessaria unificazione politica, fiscale e bancaria, ha condannato questi paesi a ristagno e disoccupazione ed e’ particolarnente imperdonabile.

I fautori della Terza Via affermano di sostenere i valori della socialdemocrazia ma – a parte lo spettacolare rovesciamento delle tradizioni pacifiste della socialdemocrazia in Irak – al tempo stesso rimuovono dal governo dell’economia tutto l’armamentario degli strumenti tradizionali di politica economica, necessari alla realizzazione di quei valori. La politica fiscale e’ vincolata al pareggio di bilancio, mentre la politica monetaria viene delegata ad una Banca Centrale non solo indipendente dal governo ma disconnessa dalla politica fiscale; si rinuncia a politiche di prezzo e investimenti delle imprese pubbliche ora privatizzate; controlli diretti sono sostituiti da parametri dettati dal mercato.  In pratica i soli strumenti di cui dispone l’armamentario della politica economica socialdemocratica sono le cosiddette “riforme”, e in particolare le pretese “riforme strutturali” (IMF 2015).

Una riforma per definizione dovrebbe essere un cambiamento in meglio, e una riforma strutturale dovrebbe incorporare un significativo e permanente cambiamento in meglio, che quindi dovrebbe essere unanimemente accettabile e politicamente non controverso.  Il problema e’ che non c’e’ e non e’ possibile un accordo sulla desiderabilita’ di questa o quella riforma, in vista dei loro immancabili effetti ridistributivi. E comunque ogni effetto positivo, se anche ci fosse, potrebbe arrivare solo nel lungo periodo (in 5 o 10 anni), e comportare forti effetti negativi nel breve periodo – un investimento quindi, che anche nel caso di un rendimento positivo potrebbe non essere sufficiente a giustificarne l’esecuzione.

In sostanza le riforme, strutturali e non, non sono altro che un eufemismo offensivo e fuorviante che designa la precarizzazione dell’occupazione (Standing, 2009), la facilita’ di licenziare i lavoratori dipendenti anche senza giusta causa, e lo smantellamento continuo e profondo dello stato del benessere. Il FMI ha confermato la inefficacia di queste misure dal punto di vista del rilancio dell’economia, ma ciononostante i governi iperliberali – socialdemocratici e non – sono ricorsi a questi strumenti con un entusiasmo meritevole di migliori cause.

Il progetto laburista nel 1996-97 si proponeva anche la realizzazione di una economia degli stakeholders, intesi come portatori di interessi legittimi diversi da quelli dei proprietari delle imprese, in qualita’ di dipendenti, clienti, fornitori, creditori e debitori, autorita’ e comunita’ locali, lo stesso ambiente. La molteplicita’ stessa degli stakeholders di un’impresa rende estremamente problematica e in pratica impossibile la risoluzione dei loro inevitabili conflitti di interesse. Non a caso la proposta veniva rapidamente abbandonata senza rumore.

Una soluzione decentrata di questi conflitti potrebbe sorgere dall’adozione volontaria da parte delle imprese di una loro responsabilita’ sociale, rinunciando volontariamente alla massimizzazione dei loro profitti a favore del riconoscimento del valore della pace sociale e del consenso; ma le imprese che cosi’ si comportassero in realta’ non sacrificherebbero i loro profitti sostenibili di lungo periodo ma solo una piccola parte dei loro profitti di breve periodo che essi convertono in maggiore pace sociale, senza risolvere il problema di fondo dei conflitti fra stakeholders e con shareholders che per sua natura non e’ risolvibile (Nuti 1998).

Un altro esempio di una politica laburista apparentemente innovativa ma altrimenti semplicistica e di scarsa portata e’ il concetto di “pre-distribuzione” introdotto da Hacker (2011) e rilanciato nel 2012 (in un’intervista con il New Statesman, 6 settembre) da Ed Miliband come Leader dell’Opposizione. Secondo questo approccio lo stato, anziche’ ridurre le disuguaglianze mediante la ri-distribuzione attraverso imposte e trasferimenti una volta che queste si siano gia’ verificate, dovrebbe prevenirle prima che si verifichino.  

Cio’ si puo’ ottenere in molti modi: potenziando la formazione dei lavoratori meno pagati aumentandone la produttivita’, e in generale facilitando l’investimento in capitale umano; migliorando la cura dei bambini in modo da facilitare l’accesso dei genitori al lavoro; riducendo il divario salariale fra uomini e donne; facilitando il lavoro dei disabili e degli anziani. Al tempo stesso si possono ridurre le retribuzioni troppo elevate, i differenziali salariali eccessivi e gli ostacoli alla concorrenza. Il ruolo dei sindacati nelle rivendicazioni salariali dei meno pagati e la difesa delle loro condizioni di lavoro puo’ essere potenziato; partecipazioni dei lavoratori al governo societario possono essere introdotte. I mercati dei prodotti, di consumo e di capitale e soprattutto dell’energia, possono essere resi piu’ concorrenziali promuovendo cosi’ l’occupazione. Infine, le autorita’ locali dovrebbero avere maggiore discrezione e maggiori risorse per la costruzione di abitazioni ad affitti moderati. L’accesso dei giovani al capitale puo’ essere migliorato con un trattamento favorevole delle successioni anticipate.

E’ difficile non essere d’accordo con la desiderabilita’ di tutte queste misure: tutti amerebbero avere una high skill high wage economy, cosi’ come tutti amano la mamma (in inglese, motherhood and apple-pie). Ma le misure di pre-distribuzione sono complementari e non sostitutive degli interventi ridistributivi tradizionali; quindi non hanno niente di miracoloso poiche’ richiedono ugualmente risorse scarse, una enorme capacita’ amministrativa e una forte determinazione politica. Pertanto la strategia della pre-distribuzione ebbe una vita effimera e venne subito liquidata in una pubblicazione del partito laburista come “una formula senza significato al posto di politiche reali” (Hatwal 2012). In italiano si parlerebbe di “aria fritta” e della pretesa di “fare le nozze con i fichi secchi”.

Al tempo stesso i fautori della Terza Via non si muovevano abbastanza velocemente o non si spingevano abbastanza lontano sulla strada prescelta: parlavano ancora di “priorità”, proponevano la riduzione della settimana lavorativa a 35 ore senza una corrispondente riduzione del salario per unita’ di prodotto, intendevano ridurre l'età pensionabile in una società che invecchiava, proponevano l’imposta di Tobin sulle transazioni finanziarie che e’ fattibile solo a livello universale e in ogni caso inapplicabile nell’era di Internet. Mentre tutti si spingevano troppo lontano avallando incondizionatamente l’iper-liberismo (vedi Nuti 1999), l’austerita’ e la globalizzazione incondizionata, compresi movimenti liberi e incontrollati di capitale e di lavoro in un mondo senza confini, scatenando nel 2007-08 la piu’ grave crisi economica, finanziaria e politica dell’età moderna, di cui ancora oggi si risentono gli effetti disastrosi.

Negli ultimi anni questa perversione del progetto socialdemocratico e’ stata rigettata da parte degli elettorati di un gran numero di paesi, dagli Stati Uniti con l’elezione a Presidente di Donald Trump alle molteplici recenti sconfitte in molti paesi europei, indipendentemente dalla loro appartenenza all’UE (Germania, Svezia, Francia, Spagna, Austria), e nei paesi del Commonwealth (Regno Unito, Australia, Nuova Zelanda, Canada).  Nell’Europa post-comunista di 15 paesi, attualmente dei partiti populisti detengono il potere in sette, piu’ altri due come membri di una coalizione, e in altri tre sono la maggiore forza di opposizione. Hodgson (2018) parla di “svolte sbagliate: come la Sinistra si e’ persa” (Wrong Turnings – How the Left Got Lost); Kennedy e Manwaring (2017) si chiedono “Perche’ la Sinistra perde” (‘Why the Left Loses’). Le cause sono molteplici: la riduzione della base elettorale di lavoratori industriali e manuali; l’emergenza di partiti piu’ impegnati a sinistra (ad esempio Die Linke) o a destra (come il Front National o l’AfD); il frequente astensionismo degli elettori dovuto alla generale sfiducia nei partiti politici; il malcontento dovuto alla crisi economica. Il fenomeno e’ particolarmente marcato nei paesi governati da una coalizione dei socialdemocratici con la destra[1], caratterizzati da elevate immigrazioni, dalla riduzione e peggioramento dei servizi sociali e dello stato del benessere, e piu’ in generale dall’impoverimento assoluto o relativo delle classi medie. (Vedi Pauly 2018, da cui sono tratti i due grafici successivi).

Spesso la perdita di consenso elettorale da parte dei partiti socialdemocratici viene bollata come risultato di “populismo”, inteso in senso dispregiativo. Rodrik (2018b) distingue fra populismo politico, che compromette il pluralismo e le regole democratiche liberali, e populismo economico che invece trova giustificazione nel fallimento delle politiche dei governi anche progressisti e puo’ essere necessario – e a volte essere l’unico modo – per evitare il populismo politico.The decline of Europe’s socialdemocrats[2]

In generale possiamo definire populismo la promessa di obiettivi impossibili    o non sostenibili, con l’appello a sentimenti egoistici dell’elettorato. In realta’ questo populismo e’ indistinguibile dalla  democrazia, non essendo altro che l’espressione del dissenso dell’elettorato rispetto alle politiche di governi anche se sostenuti o tollerati dalla socialdemocrazia, e anche nel caso di in cui si incoraggiano pregiudizi ingiustificati ma legittimi dell’elettorato (ad esempio la xenofobia, che in quanto semplice paura dello straniero o del diverso e’ un diritto inalienabile del cittadino). Questo populismo puo’ essere fomentato o letteralmente comprato con concessioni o promesse da leaders politici spregiudicati, senza per questo cadere nella oclocrazia descritta da Polibio (vedi sopra, sezione 6) o nella dittatura della maggioranza temuta da Toqueville, e comunque impossibile da evitare senza limitare o distruggere la democrazia.

Piketty (2018) nota che negli anni ’50 e ’60 il Partito Democratico negli Stati Uniti e i partiti socialdemocratici europei (anche se per l’Europa i suoi dati si riferiscono principalmente al Regno Unito e alla Francia) godevano del supporto di votanti di ogni genere, con un basso livello di educazione e un basso reddito. La globalizzazione (introducendo una divisione fra deisuguaglianza interna ed esterna) e l’espansione dell’istruzione (che ha generato disuguaglianza di istruzione oltre che di ricchezza) ha creato conflitti nuovi, multidimensionali, circa la disuguaglianza e le politiche di ridistribuzione. Perche’ i regimi democratici hanno mancato di ridurre la disuguaglianza? Perche’ – secondo Piketty – “senza una forte piattaforma egualitaria e internazionalista e’ difficile che dei votanti dalla bassa istruzione e dal basso reddito votino tutti per lo stesso partito. La divisione fra razzismo e nativismo e’ una forza potente che divide i poveri in mancanza di una forte piattaforma unificatrice. La politica non e’ mai stata un semplice conflitto fra poveri e ricchi; e’ necessario guardare con maggiore attenzione alle segmentazioni (cleavages) politiche” (p. 4).

A partire dagli anni ’70-’80 si sarebbe creato un sistema politico che contrappone due coalizioni trasversali l’una contro l’altra: l’élite intellettuale dei “Bramini della sinistra” contro la business élite/”destra mercantile”, ambedue dividendosi l’appoggio di una classe lavoratrice i cui interessi sono radicalmente diversi e non trovano espressione nei partiti.
Una tesi molto simile e’ sostenuta anche da Rovny (2018); c’e’ senz’altro del vero ma ambedue gli autori trascurano le differenze fra gli USA e l’Europa, fra i vari paesi Europei e fra i periodi rilevanti, nonche’ le radici civiche dell’evoluzione dello stato del benessere attribuita exclusivamente al socialismo.

L’attuale debacle della socialdemocrazia non e’ dovuta al rifiuto del modello socialdemocratico originale ma alla perversione del modello trasformatosi seguendo tendenze iperliberali, austeritarie e globaliste, non solo nel commercio ma negli investimenti, nella delocalizzazione della produzione in paesi emergenti, nei movimenti di capitali finanziari e nelle migrazioni di lavoro; tendenze che favoriscono le grandi imprese multinazionali, prosciugano ricavi fiscali incoraggiando la concorrenza fiscale fra stati, facilitano l’elusione e l’evasione fiscale con la proliferazione di paradisi fiscali, e cosi’ limitano le possibilita’ di intervento dei governi. Questa e’ la socialdemocrazia pervertita che oggi ha perso il consenso elettorale nella maggior parte dell’intero mondo sviluppato.

Alcune conclusioni

L’ascesa del socialismo trovava le sue radici negli svantaggi del capitalismo, che con le sue istituzioni mobilizzava il lavoro e l’immaginazione dell’uomo portando con se’ una prosperita’ senza precedenti, ma al tempo stesso generava disoccupazione di lavoro e di capacita’ produttiva, fluttuazioni e crisi intermittenti ma su frequenza e scala crescente, creando nel corso del tempo una disuguaglianza di redditi e di ricchezza crescenti, soprattutto nell’ultimo dopo-Guerra, fino agli intollerabili livelli attuali. 

La costruzione del socialismo in un paese arretrato, con abbondanza di lavoro, vasto e despotico influiva fortemente sullo sviluppo della pianificazione centrale nell’Unione Sovietica, con i suoi propri conflitti e contraddizioni aggravati dalla mancanza di democrazia politica e dalla diffusa convinzione (ad esempio di Rosa Luxemburg, Bucharin, Hilferding e altri pensatori bolcevichi) che le leggi economiche non operassero affatto nell’economia socialista. Il sistema economico sovietico registrava un imponente successo nel realizzare la industrializzazione, urbanizzazione, sviluppo accelerato, riarmo e vittoria in nell’ultima Guerra Mondiale; nell’aumento degli standards di educazione e di sanita’, la conquista dello spazio e la realizzazione di maggiore uguaglianza di quanto non fosse ottenibile in un’economia capitalista.

Tuttavia il sistema sovietico soffriva di autoritarismo, repressione of di liberta’ fondamentali e la mancanza di democrazia politica. Dal punto di vista economico il sistema non riusciva ad adattarsi alle sfide che nascevano dalle sue stesse conquiste, e alla fine veniva abbattuto per la sua inefficienza, instabilita’, squilibri interni ed esterni che portavano ad un enorme debito estero, e la perdita di supporto popolare.

The transizione a economie di mercato, con proprieta’ e impresa prevalentemente private, aperte al commercio e agli investimenti internazionali, a sua volta si dimostrava costosa – ad eccezione di casi particolari - a causa dell’approccio prescelto di “terapia d’urto”, l’inevitabile perturbazione dei flussi commerciali a causa della disintegrazione economica e monetaria del Comecon e dell’URSS, nonche’ le istituzioni e le politiche iperliberali che prevalevano nella transizione.  

Nell’ultimo dopo-Guerra un modello socialdemocratico, che perseguiva valori socialisti in un’economia di mercato senza proprieta’ e impresa pubblica dominanti, veniva realizzato nei paesi scandinavi e in altri paesi capitalistici, esemplificato dal Modello Sociale Europeo nell’UE, e serviva bene i paesi che lo adottavano. Tuttavia verso la fine degli anni ’90 il modello socialdemocratico veniva pervertito dai suoi leaders politici che, visto il collasso del modello sovietico di socialismo e la larga diffusione dell’iperliberalismo alla Reagan-Thatcher, adottavano un modello di socialdemocrazia a sua volta iperliberale, austeritaria e globalista, che conduceva a disoccupazione, fluttuazioni, nonche’ una Grande Recessione devastante e una disuguaglianza di redditi e di ricchezza senza precedenti.

Negli ultimi anni questa deformazione della socialdemocrazia tradizionale ha subito ripetute, sonore sconfitte elettorali, in favore di partiti e movimenti prontamente accusati di populismo quando essi erano soltanto una espressione di scontento popolare.  

Il  séguito di questo lungo saggio, in preparazione, sara’ dedicato al futuro del socialismo. Il modello cinese di capitalismo di stato in un’economia di mercato viene considerato e respinto a causa della sua natura autoritaria, Il modello Jugoslavo di socialismo associazionistico di mercato viene anch’esso considerato e respinto come inegualitario e tendenzialmente inefficiente. Altre forme di trapianto di istituzioni socialiste in modelli capitalistici sono anch’esse considerate e giudicate positivamente, ma di utilita’ limitata nel disegno di un’alternativa socialdemocratica.

Popov (2017) considera la possibilita’ di un “nuovo socialism” che venga realizzato unilateralmente in una o piu’ economie di mercato, con politiche ri-distributive piu’ egualitarie, finanziate con un maggiore gettito fiscale, e con una maggiore quota di proprieta’ statale in un’economia mista.  La riduzione dell’ineguaglianza e del suo impatto negativo sulle tensioni sociali renderebbe queste economie piu’ egualitarie anche piu’ competiotive internazionalmente rispetto ai loro competitori meno illuminati. Intendo seguire questo approccio di Popov, tuttavia rifiutando la desiderabilita’ di una maggiore uguaglianza quando questa fosse realizzata attraverso migrazioni illimitate in un mondo senza confini.  

Il Nuovo Socialismo, oltre a controllare e gestire le migrazioni, dovra’ altresi’ gestire la globalizzazione, riducendo il loro impatto negativoinegualitario sulla distribuzione; fronteggiare le conseguenze della robotizzazione e dell’Intelligenza Artificiale sulla disoccupazione e le sue implicazioni distributive ugualmente inegualitarie; affrontare il cambiamento climatico e la conservazione delle risorse non rinnovabili. Le differenze fondamentali fra questo Nuovo Socialismo e il modello socialdemocratico tradizionale saranno sostanzialmente differenze di politiche e di istituzioni, ma queste a loro volta imporranno differenze sostanziali negli strumenti disponibili di politica economica, che quindi formeranno un sistema molto diverso da ogni capitalismo realmente esistente.

  Dixi et salvavi animam meam (Marx 1875).

 
 

[1] Le perdite elettorali dell’SPD del settembre 2017, in seguito alla partecipazione alla Grande Coalizione con la CDU e CSU, sono continuate nei sondaggi con una riduzione dei consensi dal 20,5% al 16% dopo l’annuncio del rinnovo della coalizione, nonostante notevoli concessioni di politica economica e di posti ministeriali importanti.

[2] Le eleziane del 4/03/2018 hanno segnato una sconfitta socialdemocratica ancora piu’ pesante con I due partiti “populisti” del Movimento 5Stelle e la Lega totalizzando insieme la maggioranza assoluta dell’elettorato.

Domenico Mario Nuti

Professor Emeritus, Sapienza University of Rome. Member of the Editorial Board of INSIGHT - dmarionuti@gmail.com.
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