L'accordo FCA-PSA e la politica industriale europea

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Il rapporto fra i governi e le imprese private andrebbe concepito in termini di complementarità e di cooperazione.Ma per la Commissione europea la politica industriale sembra essere un semplice riflesso della politica della concorrenza.

Lo scorso dicembre si è concluso l'accordo per la fusione tra i gruppi Fiat-Chrysler (Fca) e Peugeot (Psa), destinato a far nascere in 12-15 mesi il quarto produttore mondiale di automobili (8,7 milioni di veicoli venduti nel 2018). L’operazione - che avviene in un contesto difficile per il settore automobilistico, contraddistinto da calo delle vendite e profondi cambiamenti tecnologici - presenta non pochi rischi, anche considerato che molte fusioni avvenute in passato si sono rivelate un fallimento. E’ bene pertanto essere prudenti. Tuttavia vi sono molti aspetti interessanti, non solo dal punto di vista industriale e sindacale ma anche in chiave di policy, che meritano di essere sottolineati.

Innanzitutto è un accordo che nasce nel cuore della grande industria europea tra due storici produttori automobilistici, uno italiano (la Fiat) e uno francese (la Peugeot), che da tempo hanno allargato la loro base produttiva e societaria oltre i confini dell’Europa. Il gruppo Fca comprende dodici marchi: sei italiani (tra cui Fiat, Alfa Romeo, Lancia, Maserati) e sei americani (tra i quali Chrysler, Dodge, Jeep, Ram). Del gruppo Psa fanno parte sei marchi: quattro francesi (tra cui Peugeot, Citroen e Ds), uno tedesco (Opel) e uno inglese (Vauxhall).

Fca produce principalmente in Europa (Italia, Polonia, Serbia), Nord America (Usa, Canada, Messico) e Sud America (Argentina, Brasile, Venezuela). Psa è fortemente presente in Europa e ha stabilimenti anche in Russia, Cina, Iran, Asia Orientale, Sud America e cinque paesi africani. Il principale azionista di Fca è Exor, controllata dalla famiglia Agnelli, con una quota del 29%, mentre i principali azionisti di Psa sono la famiglia Peugeot, lo Stato francese attraverso BpiFrance e la cinese Dongfeng, ciascuno con il 12%.

L’accordo promette bene in termini di integrazione per quanto riguarda sia i mercati di vendita sia le tecnologie. Sotto il primo punto di vista, Fca è forte negli Stati Uniti e in Canada, dove Psa non ha stabilimenti produttivi, ma ha un ruolo molto modesto in Cina, dove Psa sta tentando di sfondare. Complessivamente l’89% delle vendite del super gruppo proviene da Europa e Nord America, mentre il mercato cinese rappresenta la principale sfida, in quanto Psa da sola non riesce a vincere la concorrenza dei produttori tedeschi e asiatici.

Ancor più rilevante sarà l’integrazione tecnologica, in cui la sfida è quella di realizzare nuove piattaforme, in particolare per le auto elettriche e a guida autonoma. Qui si apre un importante capitolo: quello degli stabilimenti. Chiaramente la leadership produttiva sarà localizzata nelle fabbriche tecnologicamente più avanzate, quelle cioè destinate a servire il mercato dell’elettrico. Da questo punto di vista Psa è più avanti di Fca e parte favorita. Potrebbero allora rischiare la chiusura alcuni stabilimenti meno innovativi (italiani?). Entrambi i gruppi hanno dichiarato che non verrà chiusa nessuna fabbrica; ciò ovviamente non basta a rassicurare i sindacati, che stanno sul chi vive a causa delle difficoltà del settore. In Italia attualmente si producono 700 mila vetture l’anno a fronte di una capacità produttiva di 1,5 milioni e nel 2019 le ore di cassa integrazione sono fortemente aumentate. Inoltre per produrre l’auto elettrica è sufficiente circa un quarto degli operai richiesti per la produzione delle auto normali.

Un altro aspetto interessante dell’accordo è quello della composizione del consiglio di amministrazione e delle relazioni sindacali. Non è ancora chiaro come verranno ripartite le quote degli azionisti nella nuova società. Sembra che dovrebbero essere ridimensionate le quote di BpiFrance e Dongfeng e che Fiat e Peugeot attraverso un accordo parasociale blinderebbero il controllo del gruppo con una quota del 22,5%. Questo in parte rassicurerebbe chi al momento vede una pericolosa asimmetria tra i due gruppi a favore di Psa, che ha tra gli azionisti di riferimento lo Stato francese.

La situazione è però ancora in movimento. Quello che è certo invece è che il consiglio di amministrazione sarà inizialmente composto da undici membri, di cui cinque in rappresentanza di Fca (tra cui John Elkann che sarà presidente del nuovo gruppo) e cinque in rappresentanza di Psa. L’undicesimo componente sarà l’amministratore delegato, il portoghese Carlos Tavares, attualmente ceo di Psa e considerato uno dei manager più preparati del settore.

La novità è che, a sorpresa, tra i dieci membri del Cda vi saranno due rappresentanti dei lavoratori, uno da parte di Fca e l’altro da parte di Psa. Ancora non si sa come saranno individuati, se verranno concordati tra azienda e sindacati, se verranno scelti mediante referendum tra i lavoratori o secondo altre modalità. Chiaramente il criterio con cui verranno nominati è di fondamentale importanza per capire se il nuovo super gruppo intende procedere verso un modello di gestione semi-condivisa alla tedesca oppure se il cambiamento è più di facciata che di sostanza. Il segnale merita comunque attenzione, perché potrebbe rappresentare in nuce l’avvio di un nuovo modello di relazioni industriali europeo.

Il richiamo all’Europa ci porta ad un altro aspetto interessante dell’accordo, ossia le prospettive che si potrebbero aprire per la politica industriale europea. Quasi un anno fa la commissaria alla concorrenza Margrethe Vestager ha bloccato la fusione - sostenuta dai rispettivi ministri dell’industria - tra la tedesca Siemens e la francese Alstom nel settore ferroviario, che sarebbe stata giustificata dal timore di conquista cinese del mercato europeo. Timori giudicati appunto insufficienti dalla Vestager, preoccupata di garantire il rispetto della concorrenza all’interno dell’Unione. Il tema della formazione di campioni industriali europei per affrontare le sfide globali alla pari dei concorrenti americani e cinesi è così balzato alla ribalta. La nuova commissione, secondo gli impegni programmatici, dovrebbe affrontarlo rivedendo le regole della concorrenza.  ora la fusione tra Fca e Psa lo ripropone.

Ma la reazione all’accordo della presidente della commissione Ursula von der Leyen è apparsa piuttosto freddina. In un’intervista del 27 dicembre rilasciata a Repubblica la von der Leyen sulla fusione Fca-Psa ha dichiarato: “Innanzitutto è una decisione delle due compagnie che vogliono dimostrare di saper innovare. La politica dovrebbe in generale limitarsi a fornire incentivi agli investimenti in innovazione e ricerca. Vedo sempre più spesso settori e aziende che decidono di investire in tecnologie pulite perché capiscono che per il loro business altrimenti non ci sarebbe futuro.”

Forse qualcosa di più la presidente avrebbe potuto dire. A frenarla, oltre a una normale prudenza, potrebbe essere stato il timore che la fusione Fca-Psa alteri la concorrenza nel mercato europeo, dove – particolare importante - i produttori tedeschi recitano un ruolo molto importante. Occorrerà quindi aspettare che la Vestager apra, come da prassi, il dossier. Ma più in generale dalla sua risposta emerge un’idea piuttosto timida e riduttiva della politica industriale, soprattutto quando dice che “la politica dovrebbe limitarsi a fornire incentivi agli investimenti in innovazione e ricerca”. In realtà la politica industriale dovrebbe andare oltre la mera erogazione di incentivi per tracciare delle vere strategie di sviluppo.

Lo stesso rapporto fra i governi e le imprese private andrebbe concepito in maniera più moderna, in termini di complementarità e di cooperazione. Banalmente, se le imprese producono le auto elettriche, gli Stati devono distribuire sul territorio le infrastrutture per la mobilità elettrica, ossia le colonnine di ricarica. A più alto livello, se i governi e la commissione ritengono che sia giusto investire nell’auto elettrica, si possono stabilire forme di collaborazione fra pubblico e privato che promuovano la ricerca e l’innovazione. Tutto ciò potrebbe innescare delle traiettorie di crescita, che tanto mancano in Europa.

Considerazioni di questo genere per ora sembrano del tutto estranee al dibattito all’interno della commissione. La politica industriale sembra essere vista come un semplice riflesso della politica della concorrenza. Nella stessa intervista a Repubblica la von der Leyen dice: “Sarà necessario rivedere le regole sulla concorrenza. In alcuni settori, quelli più globalizzati, la nostra analisi delle posizioni di mercato sarà in riferimento al livello mondiale per favorire l’emergere di competitors europei. In tutti gli altri settori, invece, continueremo ad analizzare il mercato europeo per tutelare l’interesse dei consumatori.” Dunque una politica della concorrenza a due velocità? E in quale campo ricadrà il settore automobilistico? Quanto influiranno i punti di forza delle industrie nazionali nel definire questi confini? Sono tutti interrogativi che andranno chiariti per capire che tipo di politica industriale dobbiamo aspettarci da questa commissione.

Attilio Pasetto

Economics analist

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