Le maschere dell'articolo 18

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”E’ solo un totem”. “Riguarda pochissimi lavoratori”. L’assalto finale alla norma contro i licenziamenti ingiusti utilizza una retorica che in parte distorce la realtà, in parte è falsa, come i numeri di cui si parla per sostenerla. Una battaglia della destra travestita da riformismo di sinistra

Le maschere dell’articolo 18
”E’ solo un totem”. “Riguarda pochissimi lavoratori”. L’assalto finale alla norma contro i licenziamenti ingiusti utilizza una retorica che in parte distorce la realtà, in parte è falsa, come i numeri di cui si parla per sostenerla. Una battaglia della destra travestita da riformismo di sinistra

I governi dei paesi dell’eurozona che vogliono mostrarla loro la loro lealtà alle politiche dell’asse Berlino-Bruxelles portano in dono ai santuari di Berlino e Bruxelles una delle riforme strutturali più gradite. Mario Monti portò la riforma delle pensioni, spostandone il godimento alla soglia dei settanta anni. Matteo Renzi ha scelto come dono particolarmente apprezzato la libertà dei licenziamenti individuali.

Questi sono regolati in Italia dall’articolo 18 dello Statuto dei diritti dei lavoratori. L’articolo era stato già toccato dal governo Monti. Ma ora si trattava di cancellarlo definitivamente. Per facilitare l’operazione, il governo e si suoi accoliti hanno messo in campo molti argomenti insieme veri e falsi. Tra le armi retoriche più utilizzate c’è l’argomento secondo il quale la sinistra conduce una battaglia di carattere simbolico.
In questo vi è certamente un elemento di verità. Nella storia sindacale e della sinistra l’articolo 18 ha assunto un carattere simbolico sin dall’origine. E’ stato così anche per la destra che l’ha tenacemente attaccato sin da quando è nato.
All’origine vi erano state le discriminazioni antisindacali e le lotte operaie dell’autunno caldo. Ma queste non sarebbero bastate senza l’impegno politico di Giacomo Brodolini, ministro del Lavoro socialista e di Gino Giugni, maestro del diritto del lavoro. Lo Statuto e l’art.18, uno dei suoi punti qualificanti, nacquero dall’incontro fecondo fra movimento, politica e istituzioni.
Si trattò di un passaggio storico che nel linguaggio socialista del tempo si identificava con una importante “riforma di struttura”, nel senso che al termine aveva dato un grande leader del socialismo italiano, Riccardo Lombardi, prima che il concetto di riforma strutturale assumesse l’odierna connotazione ingannevole e truffaldina di controriforma mascherata.
Sotto l’attacco all’articolo 18 di tutte le destre che si sono succedute nel tempo, fino al fallito assalto frontale di Berlusconi all’inizio del passato decennio, l’intransigente difesa del sindacato e della sinistra divenne nella percezione popolare il simbolo di una frontiera che separava due modi di intendere la dignità del lavoro e i diritti dei lavoratori. In questo senso l’art.18 è stato e rimane un simbolo.
Fin qui l’argomento della destra non è falso. Ma lo diventa immediatamente, quando pretende con un artificio polemico di ridurlo a un puro simbolo, o spregiativamente a un feticcio, a un totem tribale. L’argomento è che l’articolo 18 ormai riguarda un numero insignificante di lavoratori: poche migliaia su sette milioni di lavoratori, appartenenti alle aziende con più di 15 dipendenti, alle quali si applica. I numeri soni spesso inventati o edulcorati. Ma, nella misura in cui sono affidabili, vale la pena di guardarli più da vicino.
In un articolo bene informato sulla Stampa del 27 settembre scorso, Roberto Giovannini ha riportato i dati pubblicati dal ministero del Lavoro. Ecco: nei due anni che ci separano dalla riforma Fornero, i licenziamenti individuali che hanno dato luogo alle procedure previste dall’articolo 18 sono stati 40.000. Nell’80-90 per cento dei casi  sono state riconosciute le ragioni addotte dal lavoratore. Il risultato è stato nei tre quarti dei casi un risarcimento concordato col lavoratore, e per la parte rimanente il reintegro in azienda del lavoratore ingiustamente licenziato.
Quale significato attribuireste a queste cifre? Per chi vive con distacco, dall’alto di una condizione sociale di imperturbabile stabilità, probabilmente nessun valore significativo. Eppure 40 mila lavoratori e quarantamila famiglie non sono una pura astrazione statistica. Se ci dicessero che un certo numero di aziende conosciute si accingono a licenziare 40 mila lavoratori ci chiederemmo come sia possibile, cosa potremmo fare per provare a evitare o, quanto meno, ridimensionare, un evento sicuramente drammatico per i lavoratori e le famiglie minacciati.
Qui torna la domanda sul valore di una battaglia generale per un numero considerato esiguo – Matteo Renzi ha parlato, con palese indifferenza, di tremila persone  - di casi concreti ai quali si applica la procedura dell’articolo 18.  Ma la domanda deve essere rovesciata. Se 40 mila sembrano pochi, quanti potrebbero essere in assenza della tutela garantita dall’art.18? Quanti sarebbero i licenziamenti individuali per cause organizzative ed economiche - sempre adducibili, soprattutto in una condizione di stagnazione economica - se un’azienda non sapesse di doversi sottoporre a un probabile ricorso e a una vertenza giudiziaria dalla quale può uscire soccombente per la mancanza di un giustificato motivo oggettivo? Sarebbero sempre i 40 mila casi formalmente registrati, o il doppio, o il triplo, o molte volte tanti, com’è ragionevolmente concepibile di fronte a un potere aziendale affrancato da ogni limite legale e a lavoratori privati di un legittimo potere di utodifesa?
Il ragionamento sulla pretesa esiguità dei casi è paradossale e inconsistente. Sarebbe come dire che siccome le malattie esantematiche che colpivano i bambini, in virtù delle vaccinazioni, sono diventate rare, le vaccinazioni sono a loro volta  diventate inutili e devono essere abolite.
L’argomento deve essere rovesciato. L’articolo 18, mirato a tutelare il lavoratore contro la minaccia di un licenziamento privo di giustificazione, ha una straordinaria importanza non perché posto a tutela di poche migliaia di lavoratori, ma proprio perché, col suo valore deterrente, ne limita l’estensione. In una parola, pone un freno alla “americanizzazione” dei rapporti di lavoro; impedisce di utilizzare i licenziamenti individuali come strumento improprio di licenziamenti collettivi, sottoposti a regole di intervento e di controllo sindacale e amministrativo. Diventando, in definitiva, uno strumento ordinario di ratifica dello squilibrio di potere tra il naturale dominio imprenditoriale e la solitudine del lavoratore privato dei mezzi legali di difesa.
Ma è il caso di tornare al disprezzato aspetto simbolico dell’art.18. Sì, la possibilità di difesa dai licenziamenti illegittimi riveste anche un forte valore simbolico. L’epoca post-moderna del diritto del lavoro ha registrato due scelte che sono diventate un passaggio cruciale della fine del secolo scorso. Il primo a definire la piena libertà di licenziare fu Ronald Reagan nell’estate del 1980, quando licenziò in tronco 12.000 controllori di volo, indicando col suo esempio la strada dei licenziamenti facili alle imprese americane. Il secondo fu l’esempio di Margaret Thatcher quando nel 1984, dopo una battaglia feroce, paragonabile per determinazione alla guerra delle Falkland, vinse il braccio di ferro contro i minatori, infliggendo una sconfitta storica al sindacalismo inglese.
Susanna Camusso ha avuto ragione quando ha rievocato il “thatcherismo” a proposito del disegno renziano. Ma con una differenza non trascurabile. La signora Thatcher era certa di rappresentare senza maschere e con orgoglio la destra neoconservatrice inglese, che ripeteva i fasti della destra repubblicana americana.
L’assalto finale all’art.18 organizzato da Renzi porta, invece, la maschera del “riformismo di sinistra”, con il sostegno convinto e giubilante della peggiore destra europea. Un paradossale segno della confusione in cui rischia di annegare il paese, ridotto dal grande “rottamatore”al rango di una semi-colonia di Berlino.