L'insostenibile filosofia tedesca dell'austerità

Sottotitolo: 
Le politiche di austerità imposte da Berlino e Bruxelles si ispirano all’idea (infondata) che tutta l’area euro possa seguire la strada della Germania.

Il rapporto al Congresso USA “on International Economic and Exchange Rate Policies”, ha detto ciò che la stragrande maggioranza degli economisti (escludendo i tedeschi) sostiene da tempo. Cioè che la politica economica tedesca determina una tendenza deflazionista a livello mondiale. L’alto surplus commerciale tedesco ha un effetto equivalente, negli altri paesi, ad una politica economica restrittiva. Figuriamoci poi quando la Germania ed altri alleati nordici impongono a tutti i paesi europei proprio una politica fiscale restrittiva, con il fiscal compact, l’obbligo di costituzionalizzare il pareggio di bilancio ecc…  

La risposta ufficiale del governo tedesco è stata, più o meno, la seguente: cosa possiamo farci se le nostre imprese esportatrici sono così brave? Certo, nessuno mette in dubbio la tecnologia germanica, l’affidabilità dei prodotti, delle consegne e così via. Ma questa superiorità delle imprese tedesche è solo una parte della storia. Innanzitutto va ricordato una semplice ma fondamentale relazione di contabilità economica nazionale. Il risparmio di un paese è uguale ai suoi investimenti, al deficit di bilancio e all’attivo della bilancia commerciale. L’identità può essere espressa o nei valori assoluti o come quote sul PIL. Con i simboli ben noti della macroeconomia:                                              
                                                                       S = I + (G-T) + (X-M)

(dove il risparmio interno (S) controbilancia gli investimenti (I), il deficit pubblico (le spese per servizi G meno le entrate al netto dei trasferimenti T), e il saldo commerciale (esportazioni X meno importazioni M).

Nel caso della Germania, il grande surplus commerciale è a fronte di una domanda interna compressa.Se consideriamo la quota di risparmio come data, in quanto relativamente più stabile rispetto alle altre quote, è evidente che ad un maggior peso di una delle tre componenti deve corrispondere un peso minore delle altre due. Ciò è quello che si è verificato in Germania. Se guardiamo agli ultimi sei anni, cioè da quando è cominciata la crisi, di fronte ad una quota relativamente stabile, intorno al 17,5%, degli investimenti, il fenomeno è stato quello di un azzeramento del deficit ed un aumento del saldo commerciale, che ha superato anche i limiti del 6% stabiliti dalla procedura di Bruxelles sugli squilibri macroeconomici.

Semplificando, con pari investimenti e minor deficit, il risparmio ha finanziato surplus commerciale.
Ma, come ha ricordato più volte Krugman, la Germania non ha sempre avuto dei surplus delle partite correnti.  Li ha avuti durante gli anni ottanta, e di nuovo negli anni duemila. Ma negli anni novanta il saldo delle partite correnti era in passivo. E la ragione è molto semplice: l’unificazione tedesca, la quale determinò un forte aumento del deficit pubblico. Aggiungiamo anche la rivalutazione del marco (prima dell’euro), nei confronti di alcune valute, tra cui la lira. Con l’unificazione monetaria, non dovendo temere più le svalutazioni degli altri paesi dell’euro, il processo verso il pareggio di bilancio è l’altra faccia dell’imponente crescita del saldo commerciale tedesco.  

Le politiche di austerità imposte da Berlino e Bruxelles si ispirano all’idea che tutta l’area euro possa seguire la strada della Germania. Così non è stato. Né l’Italia né tanto meno la Spagna hanno una industria manifatturiera come quella tedesca. E’ vero che le esportazioni sono cresciute nei due paesi, in particolare in Spagna, dove il costo del lavoro è diminuito con i licenziamenti e i tagli salariali. Ma dato il peso limitato dell’export italiano e spagnolo (sul 30%), rispetto a quello della Germania (più del 50%), l’aumento delle esportazioni non compensa il calo dei consumi, dovuto al diminuito potere d’acquisto dei lavoratori.

Di conseguenza la stretta fiscale ha sì fatto diminuire i deficit, ma ha causato una caduta del PIL; a sua volta questa ha fatto diminuire gli investimenti, particolarmente in Spagna (-36,9%, a causa della bolla immobiliare) ed in Italia (-14,6%, ma l’Italia partiva da un livello inferiore di un terzo a quello spagnolo). In entrambi i paesi, pur essendo diminuito il risparmio (minore S a causa di un minore PIL), una quota maggiore è andata a finanziare il miglioramento del saldo della bilancia commerciale.

Probabilmente anche Frau Merkel si rende conto che un avanzo commerciale del 7% attira l’ira non solo degli americani, ma anche degli altri paesi europei. Dovendo formare un governo di coalizione col la SPD, e non volendo cedere su eurobond, mutualizzazione dei debiti sovrani o altre forme di trasferimenti anti-ciclici tipiche di sistemi federali, dovrà accettare misure in termini di minimi salariali ed altre, che si traducono in un aumento del reddito disponibile. Di questo ne trarranno vantaggio gli altri paesi europei, in particolare quelli piccoli intorno alla Germania (Belgio, Olanda ecc..), ma l’effetto su Francia, Italia e Spagna sarà  limitato (più o meno un + 0,15% di PIL). Anche perché il fiscal compact vale anche per la Germania, la quale anzi ha introdotto in Costituzione un limite dello 0,35% di deficit, invece di quello di 0,5%.

Visto che Mario Draghi sembra deciso a seguire la linea espansiva della Federal Reserve, il nodo fondamentale riguarda appunto le regoli fiscali sull’equilibrio di bilancio e l’obbligo alla riduzione del debito. E’ chiaro che queste regole condannano gli altri paesi ad una semi-stagnazione. Non è vero che un bilancio in pareggio è un bilancio neutro. Se non vi fosse debito pubblico (o fosse trascurabile) questo sarebbe vero; anzi secondo il teorema di Haavelmo la spesa diretta per servizi o per investimenti del settore pubblico avrebbe un effetto più espansivo del prelievo fiscale.

Ma con un alto debito, e quindi un’alta spesa per interessi, ciò non è più vero. La spesa per interessi dà luogo ad un effetto moltiplicativo molto basso, vicino a zero. Pertanto un bilancio in pareggio determina un impulso restrittivo all’economia. Se l’economia crescesse ad un ritmo troppo elevato bisognerebbe avere un bilancio in pareggio o addirittura in attivo, ma la situazione in cui si troverà l’Europa nei prossimi anni è proprio l’opposto di una crescita eccessiva.

Ruggero Paladini

Economist - Professor of "Scienza delle Finanze" at University "La Sapienza" Roma; Member of the Economic Board of Insight - ruggero.paladini@uniroma1.it