Più o meno Europa?

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Affermare i valori dell’identità nazionale e della sovranità democratica non significa essere nazionalisti e sovranisti. Identità e sovranità democratica sono gli unici baluardi contro una mondializzazione senza volto

Nel corso del dibattito che ha preceduto le elezioni del 7 marzo in Italia, una delle liste (capeggiata dalla radicale Emma Bonino) si intitolava “più Europa”: aveva undubbiamente il nerito della chiarezza dell’obiettivo. Poi la lista non ha avuto successo, ma il tema non può essere cancellato: C’è bisogno di più o meno Europa? Personalmente  sento la necessità di mettere un segno “meno” davanti all’Europa.

Innanzitutto ripuliamo il linguaggio. “Uscire dall’Europa” è una brachilogia corriva, tipica del linguaggio giornalistico: non si esce da una storia millenaria, questa sì comune, di rapporti, di conflitti, di culture che si intrecciano indissolubilmente tra loro. Il Regno Unito non è “uscito dall’Europa”, ma da un’Europa che ha assunto connotati politici ritenuti in contrasto con gli interessi nazionali.

Proviamo a giustificare quel segno “meno”.
Qualche pillola di storia: alla conclusione della Seconda Guerra dei Trent’anni (1914 – 1945), l’Europa era ridotta ad un unico cumulo di rovine, materiali, morali e culturali. Questo sia dalla parte dei vinti che da quella dei vincitori, in particolare la Francia, vincitrice sì ma au bout de souffle (di lì a poco ci sarebbe stata Dien Bien Phu, la spedizione del Canale di Suez, l’inizio della guerra in Algeria).

Politici di grande talento come Schumann e Monnet, decisi a rovesciare il senso dei tragici rapporti franco-tedeschi ereditati da una lunga storia, avviarono la costruzione della comunità europea partendo dalla CECA, che consentiva di valorizzare l’acciaio francese con l’utilizzazione del carbone di cui abbondava la Ruhr.

Se gli interessi economici erano evidenti, non era nemmeno più possibile pensare a un’occupazione militare permanente di quei ricchi territori, come la Francia aveva tentato di fare dopo il ’18, stante l’incombere dell’Unione Sovietica, la presenza della Cortina di Ferro e la divisione della Germania.Dalla CECA (1951), sostanzialmente il germe del duopolio franco-tedesco, “condito” da alcuni stati di contorno, il Benelux e l’Italia, si sviluppò poi una forma politica più articolata, con la creazione di altre istituzioni comunitarie, come l’Euratom e, con i Trattati di Roma del 1957, la CEE.

Spettò poi alla straordinaria intelligenza politica del generale De Gaulle andare oltre la rete degli interessi economici per immaginare un destino politico che prima avrebbe consolidato e poi progressivamente allargato, in un ambizioso disegno storico, la comunità a tutta l’Europa continentale

Qui sta il nocciolo vero dell’Europa Unita, nel coincidere di interessi tra una Francia vittoriosa, politicamente forte (seggio permanente al Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, potenza nucleare) ma impoverita e una Germania annichilita politicamente ed economicamente, ma ancora in possesso di risorse in materie prime e in competenze industriali molto avanzate.

Comunutà europea e globalizzazione
La confrontation mondiale tra i due blocchi stese ancora per un quarantennio sull’Europa il suo ombrello protettivo e le consentì di svilupparsi e prosperare (vedi il boom economico dei primi anni ’60): nessun cedimento era possibile di fronte ai carri armati sovietici saldamente attestati nel cuore del Continente.Caduto il Muro nel 1989 e ormai dimenticate le sciocchezze sulla “Fine della Storia” e sull’inizio di un’epoca luminosa di progresso illimitato, ci si è accorti ben presto che le rovine di quel Muro erano cadute anche sul versante occidentale.

La scomparsa dell’impero sovietico stava aprendo la strada a una globalizzazione senza freni, al trionfo del “libero cittadino-consumatore”. Il prezzo pagato per questo modello di sviluppo è stato elevatissimo: nel trentennio del “migliore dei mondi possibili”, succeduto alla fine del socialismo reale, si sono registrate più vittime e più conflitti di quelli accaduti nel precedente ben più lungo periodo della Guerra Fredda.

Lo scatenamento degli spiriti vitali del capitalismo, lo strapotere della finanza, il saccheggio di interi continenti (vedi l’Africa) non poteva non avere conseguenze anche per l’Europa. Il duopolio Francia-Germania smise di funzionare come in passato. La Germania finalmente unificata e non più costretta alla minorità politica dalla sua tragica storia recente, reclamava un ruolo egemone all’interno dell’asse Parigi – Bonn, che meglio corrispondesse al suo poderoso motore economico. Mitterrand fu costretto a rinegoziare con Kohl per tentare di mettere sotto controllo la rinnovata centralità tedesca nell’Europa continentale e, soprattutto, il potentissimo marco: il patto fu siglato con la rinuncia da parte di Berlino alla propria moneta nazionale e con l’adozione dell’Euro, in cambio della “autorizzazione” alla "Riunificazione".

La situazione odierna riflette quel mutato rapporto di forze e il costante declino della Francia (vedi la disastrosa presidenza Hollande), di fronte a una Germania che “da sola” –  con buona pace di coloro i quali ripetono il mantra che “gli stati europei sono troppo piccoli per fare da soli e che ci vogliono gli Stati Uniti d’Europa” –  è la quarta, se non la terza potenza economica mondiale.

Macron, diventato presidente e autocrate della République, grazie peraltro a una legge elettorale profondamente antidemocratica, cerca di riequilibrare l’antico duopolio. Riuscirà nell’intento? La Germania ha già detto no a un ministro delle finanze europeo e la stessa Francia dirà sempre no a una forza di difesa comune europea, che intralcerebbe la sua autonoma presenza sui diversi teatri politico-militari del globo.

L'asse franco-tedesco
Eccoci dunque di fronte a una possibile, terza edizione dell’asse franco-tedesco. È questa l’unica Europa Unita alle viste. Quando si dice “ci vorrebbe più Europa” si intende un ulteriore perfezionamento del condominio franco-tedesco, con gli altri Stati in posizione subordinata? Ci si è mai chiesti perché gli Stati Uniti d’Europa non sono stati mai realizzati? Per la presenza di alcuni geni del male? Per ignoranza? O forse perché uno stato unico europeo contrasterebbe con la storia, anzi con le storie, di paesi che vogliono mantenere un’identità, non in contrasto con la definizione di comuni interessi economici e politici, ma senza recidere quelle molteplici radici che sono alla base della più grande identità europea.

Veniamo all’Italia: noi non siamo più indispensabili come al tempo della Guerra Fredda, ma siamo pur sempre una nazione di 60 milioni di persone, tecnologicamente avanzata e in diretta concorrenza con gli altri grandi paesi continentali; inoltre diamo fastidio alle rinnovate mire egemoniche della Francia sul Nordafrica. Dunque dobbiamo essere ridotti alla ragione.

Intrappolati in un Euro iniquo (sopravvalutato per noi e sottovalutato per la Germania), oberati da un debito pubblico che cresce, nonostante le misure di austerità (ma si potrebbe ragionevolmente dire anche a causa di queste) e che ci viene minacciosamente sventolato dinnanzi quando tentiamo di rialzare la testa e di scegliere liberamente chi ci dovrà governare (vedi l’uscita di Juncker, che non è stata affatto una gaffe), chiediamo  più Europa  per una sorta di cupio dissolvi, che sanzioni in via definitiva il nostro status di provincia.

La Spagna vi si è già rassegnata: obbedisce senza fiatare a Bruxelles, non riesce a darsi un governo se non di minoranza guidato dal conservatore Rajoy (del resto, in una provincia non è poi tanto necessario averne uno con una normale responsabilità democratica, visto che le direttive arrivano dal centro), sta ricevendo encomi e premi per la sua docilità (vedi la vicenda affatto anomala della nomina del vicepresidente della BCE e l’indulgenza per lo sforamento del fatidico 3%).

Vogliamo anche noi percorrere la stessa strada? È del tutto lecito farlo; solo bisognerebbe dirlo con chiarezza, senza più nascondersi dietro disegni astratti, “ideologici”, come quelli degli Stati Uniti d’Europa.
L’Europa reale esprime un’egemonia politica ed economica che ha sede a Berlino e succursali a Bruxelles, Parigi e Francoforte.
In alternativa dobbiamo sforzarci di declinare l’Europa Unita in forme diverse.

Tornare ad affermare i valori dell’identità nazionale e della sovranità democratica non significa essere nazionalisti e sovranisti. Identità e sovranità democratica sono gli unici baluardi contro una mondializzazione senza volto – peraltro con evidenti segni di crisi -che ci considera astrattamente tutti uguali, tutti liberi e tutti clienti, che conosce forme di rinnovata schiavitù  e che produce immense e crescenti diseguaglianze sociali.

Dalla mancata risoluzione del problema dell’accoglienza dei richiedenti asilo, alla questione Francia-Fincantieri, al raid francese sulla Libia, allo scippo dell’EMA a Milano, alla vicenda Embraco (che non è l’unica), alla nave dell’ENI cacciata dai Turchi nelle acque di Cipro: quanti schiaffi dobbiamo ancora prendere prima di renderci conto che la strada che stiamo seguendo ci condanna a una permanente minorità?

Più che agli Stati Uniti d’Europa, bisognerebbe forse iniziare a lavorare a una Unione Europea di Stati Sovrani, costituita da una rete flessibile di rapporti e di accordi di partenariato, capace di salvaguardare gli  interessi comuni di tutti i partner. Ciò implica un’ambiziosa e insieme realistica visione dell’unità europea ispirata al progresso economico e sociale, in un contesto politico autenticamente democratico.

In altri termini, privilegiando una visione attualizzata di comunità europea di pace e di progresso, corrispondente al disegno fondamentale che ispirò i padri fondatori –  al di fuori delle artificiali e nefaste torsioni, come la moneta unica, che ne hanno irrimediabilmente compromesso i fattori di solidarietà, aprendo la strada a sempre più profonde lacerazioni.

Claudio Salone

Professor of ancient literatures, Rome - https://claudiosalone39.wordpress.com/