Pluralismo e unità sindacale.

Sottotitolo: 
Dopo una lunga storia connotata dalla divisione, una finestra di opportunità si apre per riproporre credibilmente la prospettiva dell’unità sindacale.

Da settant’anni le parti sociali si appassionano ad un gioco privo di equivalenti nel panorama internazionale che ha determinato una singolare situazione che definirei di a-legalità costituzionale. Il gioco consiste nel restare fuori della costituzione senza, per ciò stesso, mettersi contro, obbligando i giocatori a cercare altrove ciò che vi sta dentro.

Per questo, da molto tempo mi sono abituato a pensare che (ad eccezione dell’art. 99, che sa di vintage anche se l’esito referendario del 4 dicembre 2017 lo ha mantenuto in vita, e dell’art. 46 che affaccia l’idea di una  collaborazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa cui non sono interessati anzitutto gli imprenditori) le altre norme che compongono il mosaico in cui si rispecchia la cultura giuridico-sindacale dei costituenti hanno subito una sorte paradossale. In particolare, è toccato all’art. 39 prestarsi a commenti che piacerebbero al fondatore del teatro dell’assurdo: è inattuato; tutto lascia credere che sia inattuabile; tuttavia, è sempre attuale.

Né le cose sono cambiate successivamente al trittico confederale 2011-2014 sulla rappresentanza sindacale sottoscritto da Cgil-Cisl-Uil e una Confindustria duramente indebolita dalla fuoruscita delle maggiori imprese (dalla Fiat all’IBM, alla Luxottica). Confezionando il prodotto più significativo dell’autonomia collettiva degli ultimi vent’anni, i sindacati hanno promesso che smetteranno di sottrarsi a verifiche riguardanti il “chi rappresenta chi” e la fonte della legittimazione a partecipare a processi di produzione di norme valevoli erga omnes. Meglio tardi che mai, bisognerebbe dire. Però, non si può nascondere che, sommandosi alle difficoltà di misurare  l’effettiva rappresentatività degli agenti contrattuali dirimpettai – cosa, questa, mai tentata prima d’ora – persistenti lacunosità del documento ritardano tuttora la piena operatività della svolta che è stata compiuta.

Per smentire l’incipit di questo articolo non basta  richiamarsi all’estesa e pronta applicazione del principio-base col quale esordisce l’art. 39: “l’organizzazione sindacale è libera”. Un principio sicuramente polisemico, perché è difficile dire di più con meno parole. Il fatto è che, pur essendone espressione, il pluralismo sindacale in salsa italiana è inautentico nell’ampia misura in cui nasce nel segno della subalternità alle logiche e alle dinamiche di un quadro politico ove l’anti-fascismo, dopo essere stato il cuore pulsante della Resistenza e il motore della fase costituente, perde la sua centralità sia nel pensiero che presiede all’azione politica sia nel sentimento popolare dominante nel dopo-Liberazione e il suo posto viene preso dall’anti-comunismo.

Infatti, la rottura del Patto di Roma che aveva partorito la Cgil unitaria serve a completare, sul versante della rappresentanza sociale del lavoro, la conventio ad excludendum dall’area di governo, negoziata tra la Dc e i partiti minori, delle forze politiche della sinistra marxista (come si usava chiamare allora Pci e Psi). E’ da quel momento che la tentazione di cancellare di fatto il nucleo centrale del mosaico costituzionale diventerà irresistibile e si conserverà tale anche dopo il crollo Muro di Berlino e la sparizione dei partiti che agivano da Lord protettori delle maggiori confederazioni.

Bisogna riconoscere che i cerotti della giurisprudenza hanno reso il diritto sindacale del dopo-costituzione meno deficitario nella pratica e la coeva razionalizzazione dottrinale ha reso il pluralismo sindacale più rispettabile culturalmente. Come dire: quello che Gino Giugni chiamava ordinamento intersindacale è, in larga misura, la risultante di una curiosa combinazione dell’estemporaneità creativa e, nel contempo, del conservatorismo per convenienza del ceto di operatori giuridici sollecitati ad agire per consentire al natante di pendere il largo malgrado la falla al di sotto della linea del galleggiamento.

La falla, provocata dall’inattuazione costituzionale di cui dicevo in apertura, si produce perché l’establishment vuole blindare un sistema politico in cui l’alternanza governo-opposizione è rigorosamente proibita. In effetti, il diritto sindacale vivente si compone di elementi disparati. Si va dall’ibridazione della rappresentanza sindacale in bilico tra pubblico e privato al bricolage contrattuale protetto da giudici, toghe d’ermellino incluse, secondo i quali pezzi significativi del diritto corporativo sarebbero in grado di sopravvivere al cambio di regime. Quindi, se il diritto sindacale disegnato nel mosaico costituzionale assumerà l’aspetto di un legno storto o tarlato, lo si deve principalmente al fatto che i partiti di massa si considerano moderni principi e i sindacati, che non sanno ancora padroneggiare (e nemmeno possono conoscere per mancanza di esperienza diretta) logiche e dinamiche delle relazioni sindacali in un regime democratico, si comportano da fidati scudieri.

In realtà, la Cgil fa di tutto per presentarsi all’opinione pubblica come il sindacato per il quale un buon risultato elettorale dei partiti di sinistra è meglio di un buon contratto. E, parallelamente, il potere costituito vede nella Cisl l’avamposto piazzato in partibus infedelium su cui fare assegnamento per dare al mondo delle imprese un partner più collaborativo che conflittuale e alla DC una rappresentanza sociale del lavoro orientata in senso filo-governativo. In effetti, la Cisl non potrà darsi una propria identità se non polemizzando aspramente con la Cgil e, in particolare, con l’art. 39 in cui quest’ultima si riconosce pienamente.

Per molti versi, il netto rifiuto del modello di contrattazione collettiva  progettato dai costituenti è, per lei, una scelta obbligata. Il modello che non può non preferire è alternativo nel senso che il sistema contrattuale organizzato dagli attori sociali con le esigue risorse che l’ordinamento giuridico mette a loro disposizione si regge sul principio del mutuo riconoscimento in base al quale gli agenti contrattuali sono liberi di scegliersi reciprocamente. Come l’imprenditore tratta con chi gli pare, così ogni sindacato si allea con quello che gli conviene e, se può, sgambetta quello che gli dà fastidio. Il principio è coessenziale alla privatizzazione delle regole del gioco sindacale e anzi costituisce la vera riserva aurea custodita nel caveau del solo diritto apparentemente possibile Per quanto vecchiotto, il principio gode tuttora ottima salute, come testimoniano le dimensioni della c.d. pirateria contrattuale praticata attualmente da organizzazioni padronali e sindacali non rappresentative che permette forme di dumping salariale.

Ovviamente, un principio del genere, che presuppone una condizione di libertà d’azione sconfinante nella discrezionalità, ha il pregio di creare enormi difficoltà ad un soggetto che, come la Cgil, negli anni ’50 si muove in un ambiente in cui l’ostilità nei suoi confronti è rinvigorita dai rapporti organici che intrattiene coi partiti della sinistra. Ma è un principio che esula, e anzi è espulso, dal modello di contrattazione collettiva ex art. 39. Il quale punta sull’unicità del negoziatore in nome e per conto delle categorie, affidando la soluzione dei conflitti endo-sindacali che si manifestassero durante le trattative alle maggioranze possibili all’interno di un organismo – la “rappresentanza sindacale unitaria” – dove il potere contrattuale collettivo dei sindacati si ripartisce in proporzione alla consistenza associativa dei medesimi.

Infatti, la composizione della delegazione sindacale trattante è predeterminata  in modo vincolante. Necessariamente unitaria, prende le sue decisioni sulla base di regole sovra-ordinate che ne fanno un “mini-parlamento” dove i sindacati contano in proporzione al quantum accertato della propria capacità rappresentativa. Come dire che il principio del mutuo riconoscimento è potenzialmente capace di produrre effetti penalizzanti paragonabili a quelli prodotti sul versante governativo dalla conventio ad excludendum, persino nei settori in cui la Cgil è maggioritaria.  Effetti che – come si sarebbe visto nella Fiat all’epoca di Sergio Marchionne – la Corte costituzionale avrebbe giustamente equiparato ad “una forma impropria di sanzione del dissenso che incide, condizionandola, sulla libertà del sindacato” e, al tempo stesso, sulla libertà dei lavoratori di scegliere la rappresentanza che vorrebbero.

Per questo, la Cisl non ha mai avuto alcun interesse a farsi riconoscere dallo Stato la legittimazione a rappresentare indistinte collettività, anche se (con scarsa coerenza e molto buon senso) abbandonerà in fretta la pretesa di disapplicare i contratti che stipula ai non-iscritti. Sua è l’intransigenza con cui difende la libertà sindacale contro le interferenze del potere pubblico. Se ne dichiara tanto gelosa da vederla minacciata persino dal test di democraticità condotto sugli statuti sindacali da qualche funzionario pubblico più o meno occhiuto cui l’art. 39 subordina la “registrazione” del sindacato nell’istituendo albo degli “enti d’interesse collettivo giuridicamente riconosciuti dallo Stato”.

Il timbro del linguaggio è inconfondibilmente professorale; ma è quello usato da Giuseppe Di Vittorio in qualità di deputato della Costituente per qualificare i sindacati legittimati ad attivare una fonte di auto-regolazione che rompe il monopolio statuale della produzione normativa. Sempre della Cisl è la narrazione secondo la quale il mosaico costituzionale, con tutto il protagonismo legislativo che presuppone, riecheggia la legificazione cingolata con la quale il fascismo asfaltò l’universo dei rapporti Stato-sindacati-lavoratori-imprese.

E’ innegabile, infatti, che nel codice genetico del sindacato immaginato dai costituenti è impressa la bipolarità che ne fa un soggetto con l’incarico di rappresentare gli iscritti in base agli ordinari meccanismi previsti dal diritto civile e, al tempo stesso, con la vocazione a sostituirsi al legislatore per assicurare alla generalità dei lavoratori appartenenti alle varie categorie economico-professionali trattamenti uniformi e inderogabili a prescindere da qualsiasi mandato associativo. In conseguenza, anche il contratto collettivo privilegiato dall’art. 39, ossia il contratto nazionale, ha natura duale. Proprio come quello disciplinato dalla “fascistissima” legge del 1926, ha l’aspetto esteriore del contratto e l’anima della legge, per dirla con Francesco Carnelutti.

Pertanto, l’enfasi con cui la Cisl rivendica l’incompatibilità della libertà di cui gode il sindacato con l’integrazione del medesimo nell’ordinamento giuridico dello Stato non può non mettere a disagio il Giuseppe Di Vittorio segretario generale della Cgil.  Impossibilitato com’è a dissentire col Giuseppe Di Vittorio deputato della Costituente che tutti considerano il padre putativo dell’art. 39, il Di Vittorio segretario generale della Cgil  mai e poi mai avrebbe ammesso che l’art. 39 non va oltre un annuncio del tipo “armiamoci e partite”. Eppure, oggettivamente gli somiglia. E ciò perché l’omologazione alla legge di un contratto tra privati è sempre un privilegio oneroso e implica un costo. Per almeno un paio di eccellenti motivi. Primo: per quanto si voglia sdrammatizzare la ricerca di un  equilibrio compatibile coi principi fondativi dei regimi democratici tra la  dimensione privato-sociale e la dimensione pubblico-statuale tanto del sindacato quanto della contrattazione collettiva, niente e nessuno può escludere a priori che si concluda con sacrifici sia della libertà di quello che dell’autonomia di questa. Secondo: al di là delle intenzioni, l’art. 39 è inestricabilmente legato all’art. 40 e quella che entrambi formano è una coppia di inseparabili i cui destini sono incrociati.

Infatti, tra una norma come l’art. 39 che apre generosamente una corposa linea di credito a favore di soggetti privati come i sindacati e una norma come l’art. 40 dal quale trapela una insuperata riluttanza dello Stato a familiarizzare con lo sciopero sussiste un rapporto di corrispettività. Come dire: l’art. 39 non si attua disgiuntamente da leggi limitative dell’autotutela collettiva o (il che è lo stesso) si attua simultaneamente all’art. 40. Di questo principio basico è interprete e portatore anche il monumentale Testo Unico sulla rappresentanza sindacale che ricordavo all’inizio. Infatti, la  performance progettuale delle parti sociali è riassumibile sostanzialmente nella previsione di meccanismi atti a conferire ai contratti collettivi l’efficacia erga omnes nella prospettiva di aumentare la governabilità della fase di amministrazione dei medesimi: dove governabilità sta per esigibilità degli obblighi contrattuali e l’esigibilità postula la fiducia che l’imprenditore deve poter riporre nella solvibilità del sindacato che, come mallevadore della pace sociale, è tenuto ad agire da autorità sulla quale incombe il dovere di influenzare associati (e non).

Come dire che il pluralismo sindacale è stato rivitalizzato e rilegittimato per portare ordine piuttosto che per dare voce alle basi sociali. E ciò nello stesso momento in cui sarebbe stato più utile per la democrazia interrogarsi sulla sua obsolescenza. In seguito alla radicale trasformazione del quadro politico, infatti, si è aperta una finestra di opportunità per riproporre in maniera finalmente credibile la prospettiva dell’unità sindacale. Approfittarne si deve, prima che il vento di destra che soffia anche nel nostro paese la richiuda per sempre, spostando al livello aziendale il baricentro dell’azione sindacale e dunque travolgendo i principi-base della confederalità che costituì l’atout vincente e salvifico del sindacalismo storico.

Il superamento di un anacronismo che ormai alimenta soltanto mediocri patriottismi d’organizzazione che fanno di ciascun sindacato un’agenzia di erogazione di servizi di vario genere a beneficio più di utenti-clienti che di rappresentati non passerebbe certo inosservato. Tutt’altro consentirebbe la formazione dell’interlocutore giusto di una sinistra dispersa e per ciò stesso ne favorirebbe la ricomposizione.

Umberto Romagnoli

Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight.

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