Questa Europa non ci serve

Sottotitolo: 
Il tradimento dell'originario progetto dei Padri fondatori e il rischio di disintegrazione dell'euro.

1. Benefici e costi dell’introduzione dell’euro

L’adozione dell’Euro ha comportato per tutti i paesi membri dei benefici e dei costi importanti.  I benefici sono stati: una maggiore integrazione economica e finanziaria; un tasso di inflazione inferiore alla migliore performance della Bundesbank; e dieci anni di un tasso d’interesse sul debito pubblico rapidamente convergente e tendenzialmente decrescente.

Al tempo stesso i governi nazionali perdevano l’uso di vari strumenti di politica economica: la politica monetaria, demandata alla BCE; il tasso nominale di cambio della moneta nazionale, e la politica fiscale, ora soggetta a una piu’ stretta disciplina (Maastricht, G&SP).

L’Italia ebbe il costo addizionale di una stetta fiscale per avvicinarsi a soddisfare i pre-requisiti – un ottimo investimento dati i benefici ottenuti.  Inoltre nella transizione all’euro ci fu in Italia (e in Grecia) un’impennata iniziale dei prezzi, per la mancanza di monitoraggio e controlli del governo. Fu cosi’ subito erosa la competitivita’ internazionale dei due paesi. La sovranita’ monetaria era gia’ stata ceduta dal governo alla Banca d’Italia nel 1980.  La maggiore integrazione finanziaria si tradusse in una maggiore vulnerabilita’ al contagio in tempi di crisi. Ma soprattutto, a Deauville il 19 ottobre 2010 Merkel e Sarkozy decisero che il Meccanismo Europeo di Stabilita’ avrebbe inflitto delle perdite agli investitori, una posizione eticamente corretta ma infelice, perche’ fece aumentare gli spreads dei tassi di interesse sul debito pubblico.

E da allora sono cominciate le tribolazioni dell’eurozona, caratterizzata da ristagno, disoccupazione record, deflazione, ancor oggi nella morsa della crisi piu’ grave che abbia mai colpito il capitalismo moderno.

Infatti la Grande Crisi del 1929 aveva visto una rapida ripresa gia’ dal 1933 grazie agli investimenti pubblici del New Deal di Roosevelt, mentre la crisi del 2007 e’ stata aggravata e protratta dalle politiche autolesionistiche di austerità imposte dagli organismi finanziari internazionali e dall’Unione Europea.

2. Le malattie dell’Euro

L’Euro ha sofferto degli errori dei vari governi, ma soprattutto di due malattie congenite iniziali e di una successiva malattia degenerativa.

Primo, la nascita prematura dell’euro, prima dell’integrazione politica e fiscale, (e di difesa e politica estera): l’Euro avrebbe dovuto essere lo stadio finale dell’integrazione europea, il suo crowning, e invece è stato impiegato per accelerare i processi di integrazione, spingendo la finalite’ politique mediante le tensioni generate dalla disfunzione monetaria.

Secondo, la BCE è nata incompleta, per non dire mutilata, non tanto per la sua indipendenza che è comune alle maggiori banche centrali del mondo, ma perche’, modellata sulla Bundesbank, era ancor piu’ di quest’ultima del tutto separata dalla politica fiscale, priva del potere illimitato di acquistare titoli di stato come invece fanno altre banche centrali pure indipendenti (come la Fed e le Banche Centrali del Giappone o dell’Inghilterra).  Per di piu’ la BCE è nata priva dei poteri consueti di supervisione e consolidamento delle altre banche e priva della rete protettiva di una assicurazione dei depositi.

La malattia degenerativa dell’EMU è stata la progressiva divergenza economica dei paesi membri, non solo in termini dei parametri monetari e fiscali di cui era prevista la convergenza statutaria attraverso regole poi disattese, ma anche dei parametri reali e finanziari la cui convergenza avrebbe dovuto essere una precondizione della appartenenza all’Euro ma non lo è stata, quali tasso di disoccupazione, quota dei crediti bancari in sofferenza, competitivita’ internazionale. La progressiva divergenza, ha creato forti  spinte centrifughe .

3. Possibili soluzioni

La sola politica monetaria non è sufficiente a rilanciare l’economia europea, nonostante le iniziative originali e coraggiose di Mario Draghi (LTROs, OMTs e altre iniziative non convenzionali), anche per le restrizioni e i vincoli previsti dai Trattati e imposti soprattutto dietro alle pressioni dei paesi Nordici. Basta vedere il fallimento delle politiche giapponesi di Abenomics, consistenti appunto di espansione monetaria, anche se accompagnata da modesti stimoli fiscali e riforme strutturali.

Il commercio internazionale, che dagli anni ’70 era stato un fattore dominante di crescita, recentemente è rallentato ancor più del PIL globale; il FMI conferma che ha notevolmente ridotto il suo ruolo propulsivo preesistente.

Da molte parti si invocano “riforme strutturali”. Una riforma per definizione dovrebbe essere un cambiamento in meglio, e una riforma strutturale dovrebbe essere un significativo cambiamento in meglio, che quindi dovrebbe essere politicamente non controverso e unanimemente accettabile.

Ma tali riforme sollevano tre seri problemi. Non c’è accordo sulla desiderabilità di questa o quella riforma, visti i loro effetti re-distributivi; eventuali effetti positivi  possono aversi solo nel lungo periodo (5-10 anni); ci sono riforme strutturali che, seppure efficaci nel lungo periodo, nel breve periodo possono avere degli effetti negativi. Ad esempio un aumento della concorrenza, che riduca il livello dei prezzi e fomenti la deflazione.  In questo caso si tratta di una forma di investimento che puo’ essere non profittevole.

La riduzione della spesa pubblica allo scopo di ridurre le imposte (come ipotizzato ma non ancora realizzato nella nostra spending review) è desiderabile quando si riducono gli sprechi, ma altrimenti una riduzione bilanciata di spese e di imposte può solo avere un effetto recessivo sul livello di reddito e dell’occupazione, come dimostrato da Haavelmo. Semmai sarebbe desiderabile un potenziamento degli investimenti pubblici finanziato con la riduzione di spese pubbliche correnti.

Una soluzione superiore sarebbe un investimento pubblico collettivo intrapreso a livello europeo. Ma i paesi europei cosiddetti virtuosi, che sarebbero nella migliore posizione per accollarsi un ruolo propulsivo – grazie ai bassi tassi di interesse a cui possono finanziarsi, e il loro maggiore margine di manovra fiscale – sono irragionevolmente riluttanti a farlo.  E il bilancio dell’Unione, di un misero 1% del PIL europeo (20% negli USA), non consente grandi iniziative europee.

Potrebbe sembrare che il recente Piano Juncker, con investimenti dell’ordine di €315 miliardi in tre anni a partire dall’autunno 2015, rappresenti un importante progresso in questa direzione. Ma in realtà questi investimenti includono un presunto e irrealistico effetto moltiplicativo sugli investimenti privati, dell’ordine di quasi 15 volte. I fondi europei sarebbero solo 21 miliardi, di cui 8 gia’ stanziati per altri scopi, 8 in garanzie, e 5 miliardi stanziati dalla BEI di cui tuttavia non e’ prevista la ricapitalizzazione. Attualmente il denaro fresco effettivamente disponibile sarebbe di soli 2 miliardi. Una presa in giro.

Jacques Drèze e Alain Durre’ (CORE 2013) hanno proposto l’emissione di obbligazioni indicizzate al tasso di sviluppo medio dell’Eurozona da parte della BCE o altra agenzia EU, che poi le scambierebbe con obbligazioni dei paesi membri indicizzate al tasso di sviluppo dei singoli paesi, in proporzione al loro PIL in modo da poter pagare un sussidio ai paesi che crescono meno della media con il rendimento ottenuto dalle obbligazioni dei paesi che crescono piu’ della media, senza alcun costo.  Uno schema brillante, che pero’ in caso di default infliggerebbe forti perdite in conto capitale sulla agenzia emittente.

Pierre Pâris e Charles Wyplosz (2013, 2014) hanno proposto lo schema PADRE – Politically Acceptable Debt Reduction in the Eurozone, analogo a una mia proposta del 2013 – consistente nella mobilitazione del signoraggio della BCE, per l’acquisto e il ritiro di titoli del debito pubblico di tutti i paesi azionisti della BCE (inclusi 10 paesi membri dell’EU ma non dell’EMU), nelle proporzoni delle loro azioni. Quindi anche un eventuale default non comporterebbe una Transfer Union.  Willem Buiter stima il valore presente del signoraggio BCE a circa €3300 miliardi (Lezioni Caffè 2011).

4. La disintegrazione dell’Eurozona?

Negli ultimi anni si è parlato insistentemente di una possibile disintegrazione dell’Eurozona, con il ritorno dei paesi più deboli all’adozione di una loro moneta nazionale.

Il recupero della sovranità monetaria nazionale consentirebbe l’impiego di tutti gli strumenti della politica monetaria, e di riacquistare competitività attraverso la manovra del tasso di cambio. Tuttavia la disciplina fiscale continuerebbe ad applicarsi a tutti iu membri dell’Unione anche se non piu’ membri dell’EMU.   

Il tasso di cambio fra euro e la nuova valuta sarebbe irrilevante, perche’ si applicherebbe anche ai prezzi. Ma il suo uso come strumento di politica economica nazionale avrebbe il costo di successive svalutazioni, maggiore inflazione, maggiori tassi di interesse e rivalutazione del debito, nonche’ il costo dell’uscita anche dall’intera Unione Europea che (ad eccezione di Danimarca e UK che a suo tempo negoziarono una deroga) esige la moneta unica come parte dell’acquis communautaire.

L’uscita dall’euro non eviterebbe il default ma sarebbe la forma che tale default prenderebbe, a costo di minore accesso ai mercati finanziari .   

Seguendo le politiche correnti, prima o poi la crisi economica potrà terminare e dar luogo a una ripresa, per i meccanismi automatici che operano sempre nel corso di ogni ciclo economico, ma ciò potrebbe avere luogo troppo tardi per evitare la disintegrazione dell’area dell’Euro (come avvenne con la disintegrazione dell’USSR).

Questa nostra Europa avra’ tradito gli intenti dei suoi Padri fondatori.  E non potremo nemmeno piangere la eventuale fine ingloriosa del progetto europeo, perché l’Europa che abbiamo oggi non ci serve, e non merita certo le nostre lacrime. 


[1] Centenario della nascita di Federico Caffe’, Facolta’di Economia, Sapienza Universita’ di Roma, Tavola Rotonda su “La politica economica europea: quali prospettive?”, Roma, 4-5 dicembre 2014.

[2]  Sapienza Universita’ di Roma, dmarionuti@gmail.com, Website http://sites.google.com/site/dmarionuti/, Blog “Transition” http://dmarionuti.blogspot.com/ .