Sopravvivrà alla crisi il modello sociale europeo? *

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Con un teatrale rovesciamento delle parti, il versante progressista della cultura politica americana è accusata di coltivare il modello sociale europeo, mentre l’oligarchia che governa la politica europea sposa la filosofia neoliberista dell’opposizione repubblicana americana.

Come uscirà il modello sociale europeo dalla crisi che attraversa l’eurozona? Se ci basiamo sul modo come le autorità europee gestiscono la crisi,la prognosi non può essere che pessimistica. C’ un nuovo consensus Francoforte-Bruxelles che ha preso il posto del Washington consensus uscito piuttosto malconcio dalla crisi americana del 2008. Il dibattito si concentra sulle politiche di austerità delle autorità europee, che rischiano  di essere fatali per l’euro. Ma è un errore trascurare l’altra faccia della medaglia delle politiche europee:  quella , che raffigura le c.d. “riforme strutturali”. Il modello sociale europeo è, in effetti, minacciato di essere la vittima sacrificale delle due facce della medaglia. Ma il veleno più letale è quello instillato dalle riforme strutturali.

L’austerità comporta molti danni, ma prima o dopo avrà esaurito i suoi effetti e, a quel punto lascerà spazio ad altre politiche. Le riforme strutturali avranno, invece, prodotto effetti difficilmente reversibili. Una volta che il quadro istituzionale, politico ed economico, nel quale i complessi sistemi di welfare europeo sono inseriti sarà stato smantellato, o profondamente logorato, sarà difficile  muovere all’indietro la ruota della storia, fare come se nulla fosse accaduto. L’austerità ha, da questo punto di vista,una doppia funzione. Per un verso agisce direttamente, come i salassi di un tempo, sottraendo energie al malato; le riforme si struttura ne cambiano i modelli comportamentali.

Sul fatto che l’economia dell’austerità sia fallimentare non possono esserci dubbi. Prendiamo il caso della Grecia, la Lehman europea, momento di svolta della crisi. Il suo collasso è servito a intimidire e ricattare, sotto la minaccia del contagio, gli altri paesi in difficoltà, dai più piccoli fino alla Spagna e, ora, l’Italia. La Troika – FMI, BCE e Commissione europea – non poteva essere ignara delle conseguenze della cura da cavalo imposta alla Grecia. All’inizio era un problema minore, trattandosi di un paese che rappresenta meno del 3 per cento del Pil dell’eurozona. Si trattava di concordare con l’allora governo  di George Papandreu, che aveva denunciato le manipolazioni del precedente governo conservatore (che adesso torna con Samaris alla testa del governo) un programma graduale di riequilibrio finanziario. Le autorità europee respinsero la richiesta, imponendo  alla Grecia una micidiale cura da cavallo, il cui risultato è sotto i nostri occhi. Dopo aver messo in ginocchio l’economia, affamato la popolazione, e portato la disoccupazione prossima al 25 per cento, il debito pubblico, che era inferiore al 120 per cento del Pil, ora è al 160 per cento e, secondo i calcoli del Fondo monetario internazionale, ci vorrà quasi un decennio per tornare al 120 per cento,

Possiamo non condividere la scelta politica dell’austerità, ma sarebbe ingenuo e fuorviante considerare inconsapevoli i suoi autori. A Bruxelles, come a Francoforte e a Berlino, sanno perfettamente che l’austerità non è una cura né per crescere né per combattere la disoccupazione.  Non è, pertanto, casuale che la soluzione sia riposta nelle famigerate “riforme strutturali”. In altri termini, l’intento di smantellare le istituzioni che nel loro insieme configurano quel modello sociale che Jacques Delors poneva al centro della costruzione europea.

 Quando parliamo di modello sociale europeo, non ignoriamo che al suo interno vi sono molte differenze, che diverse sono le origini storiche, culturali, istituzionali e politiche. Ma vi è un’essenza comune che consente di distinguerlo, per esempio, da quello americano. . Ma, non a caso, nel “consenso” Francoforte-Bruxelles, l’obiettivo è la progressiva americanizzazione del sistema di welfare europeo, mediante la riduzione della spesa sociale e la deregolazione selvaggia delle regole del lavoro.
In questo scenario, la compressione della spesa sociale deve favorire la privatizzazione di parti crescenti dei sistemi pensionistici, sanitari e scolastici. E’ il modo di sposare l’austerità di oggi con le riforme strutturali per sempre.

Nel campo della riforma dei sistemi pensionistici,Il prolungamento dell’età pensionabile è un obiettivo largamente conseguito. Ma non è il solo. La tendenza è verso dosi crescenti di privatizzazione del sistema. Da questo punto di vista, l’esempio più “avanzato” è fornito dalla Gran Bretagna .con le trasformazioni iniziate al tempo di Margaret Thatcher e ancora in corso. Con quali risultati? Il “Financial Times” ne dava in un recente editoriale una sintesi efficace: “Circa la metà dei pensionati britannici  hanno bisogno di qualche forma di assistenza per tirare avanti”. Il problema principale – scriveva - è il costo delle assicurazioni private, all’origine dello scarso rendimento delle pensioni, “soprattutto per milioni di pensioni più basse”. Non si può  chiedere ai lavoratori di fidarsi dei sistemi privati se i loro risparmi “sono indirizzati verso i guadagni dei manager dei fondi piuttosto che verso le loro pensioni future”. 

Un’analisi onesta che le autorità europee dovrebbero tenere in conto. Ma il loro fondamentalismo ideologico si coniuga con gli interessi delle oligarchie finanziarie che controllano le compagnie assicuratrici e le banche, mentre il rischio di una vecchiaia in condizioni di povertà grava sui lavoratori - salvo il ricorso a un’incerta assistenza pubblica.

Il secondo punto di attacco del binomio austerità-riforme è la sanità. Nel modello europeo la sanità è basata su un sistema pubblico di assistenza universale e gratuito, ispirato al modello britannico di welfare universalistico secondo il pensiero di Beveridge. Vi sono certamente difetti. Ma, per fare un esempio, secondo una classifica dell’OCSE, il sistema francese e quello italiano sono tra i più efficienti al mondo. In ogni caso, il costo medio della sanità è in Europa intorno all’8 per cento del PIL, contro uno stratosferico 17 per cento negli Stati Uniti. Dove le persone al di sotto di 65 anni sono nelle mani delle compagnie di assicurazione private, i premi assicurativi, in continuo aumento non ostante la crisi, sono arrivati a un livello medio di 15.000 dollari per famiglia alla fine del 2011; e, non casulamente, circa 50 milioni di americani sono privi di assicurazione. Un confronto impressionante, ma che non dissuade le autorità europee dal raccomandare dosi crescenti di privatizzazione del sistema, ottenendo, da questo punto di vista, un particolare successo nei paesi dell’allargamento dell’Unione ai paesi dell’est.
 
Il terzo punto di sofferenza del tradizionale modello europeo di welfare riguarda il sistema di istruzione pubblica, il cui principio di base è la sostanziale gratuità dell’’istruzione dall’infanzia fino all’Università. E’ noto che in America i costi sono in continua crescita, in particolare rispetto agli studi superiori.  “Tra il 1981-82 e il 2010-2011 la spesa per un corso universitario quadriennale è aumentato del 145 per cento negli istituti private e del 137 per cento in quelli pubblici.Nello stesso periodo il reddito mediano di una famiglia tipica è cresciuto del 17,3 per cento”.(EPI Price of a diploma: Class of 2012 faces tough job market, rising costs, and increasing debt ,May 8, 2012). Stando così le cose, non può sorprendere che secondo il  Consumer Financial Protection Bureau i debiti accumulati dai giovani per pagarsi la frequenza ai college corrispondono a un trilione di dollari  -  per dare un’idea, una cifra colossale pari alla metà del reddito nazionale italiano. Una situazione che fa svanire il “sogno americano” di una connaturata possibilità di ascesa sociale.

Ma, al di là degli effetti sulla spesa sociale, il cuore dell’attacco al modello sociale europeoi è nella riforma del mercato del lavoro, la madre tutte le riforme di struttura. Per intenderci, bisogna premettere che, negli ultimi due decenni, la contrattazione sindacale e la legislazione del lavoro hanno reso flessibile tutti gli aspetti dell’organizzazione del lavoro che nel passato erano considerati rigidi. Ma permangono, in linea generale, due tabù: il vincolo ai licenziamenti illegittimi e la riduzione dei salari fissati nella contrattazione collettiva.

La strategia della Commissione europea, della BCE, al pari di quella tradizionale del Fondo monetario internazionale, punta alla liquidazione di questi ultimi due tabù. Il modello di riferimento è anche qui quello americano. Dove i licenziamenti sono “at will”, liberi, i salari perfettamente flessibili, e oltre il 90 per cento dei lavoratori del settore privato privi di rappresentanza sindacale  e di contrattazione collettiva. Non è un passaggio di facile attuazione, essendo presenti in Europa altri modelli. In Germania, per esempio, la crisi è stata affrontata salvaguardando i posti di lavoro, mediante l’istituto del Kurarbeit,che prevede la riduzione delle ore lavorate per tutto l’organico al posto dei licenziamenti. Con quale risultato? Alla fine del 2011 la disoccupazione era a un livello più basso di quello pre-crisi. Il contrario del risultato americano, dove le imprese hanno profittato della crisi per ridurre l’occupazione più che proporzionalmente rispetto alla riduzione della produzione, guadagnando produttività e aumentando a dismisura i profitti.

Ma le autorità europee non disarmano. E, a parte la Grecia, il Portogallo e l’Irlanda, il loro maggiore successo è stato, da questo punto di vista, quello ottenuto in Spagna, dove il capo del governo conservatore, Mariano Rajoy, ha con un decreto-legge sancito la libertà dei licenziamenti individuali per ragioni economiche, produttive e organizzative, e la libertà di ridurre i salari contrattuali per le aziende con difficoltà di bilancio.

Con una singolare giravolta del linguaggio, questo tipo di “riforme strutturali” è definito “ambizioso” dal capo del governo “tecnocratico” italiano, Mario Monti, che si muove, conformemente alla Spagna, sia pure con qualche maggiore resistenza, nella direzione indicata dalla famigerata lettera della BCE dell’estate scorsa, firmata congiuntamente da Jean-Claude Trichet e Mario Draghi, rispettivamente il vecchio e il nuovo presidente della BCE.

Paradossalmente, la strategia “riformista” delle autorità europee ha molte somiglianze con la piattaforma di Mitt Romney, candidato alle elezioni presidenziali di novembre, che accusa Barack Obama di flirtare con le politiche sociali di tipo europeo, come nel caso della tentata riforma sanitaria. Non a caso scrive Yuval Levin, direttore di “The National Interest” e collaboratore di “Weekly Standard”, autorevoli voci del conservatorismo americano, che “il welfare state socialdemocratico (negli USA definito liberal) è diventato insostenibile”, e che Obama con la sua politica sociale “ non solo pregiudica il futuro delle finanze pubbliche, ma anche il futuro del capitalismo americano”.

E’ un teatrale rovesciamento delle parti. Il versante progressista della cultura politica americana è accusata di coltivare il modello sociale europeo, mentre l’oligarchia che governa la politica europea sposa la filosofia neoconservatrice dell’opposizione repubblicana americana,

La cosa non sfugge a Robert Reich, già ministro del lavoro durante il primo mandato di Bill Clinton, che, riferendosi agli USA,  scrive:  “Dopo l’inizio della recessione, la quota del reddito nazionale andato ai profitti è aumentata nella misura in cui sono scesi quelli destinati alla forza lavoro. I profitti delle imprese sono ora al livello  più alto degli ultimi 45 anni”. E poi, riferendosi all’eurozona: “ La signora Merkel, in nome dell’austerità, rimane contraria a una ripresa della crescita attraverso un aumento della spesa… vuole, invece, ricreare la crescita con le “riforme strutturali” – mediante le quali presumibilmente intende dare alle imprese più libertà di assumere e licenziare, di spostare il lavoro verso i lavoratori con contratti temporanei e, in generale, deregolati …Questo è ovviamente il modello americano…che ha esaltato i profitti al tempo stesso che deprimeva i salari” (A diabolical mix of US wages and European austerity, Financial Times, 31 maggio 2012).

Il linguaggio e le conclusioni non potrebbero essere più illuminanti. Torna qui il nostro interrogativo di partenza: riuscirà il modello sociale europeo a sopravvivere alla crisi? E, più precisamente, all’ideologia neo-conservatrice del "consenso Francoforte-Bruxelles”, sostenuto da Berlino, che utilizza come strumento di ricatto le armi devastanti dei mercati finanziari? L’interrogativo rimane aperto. La speranza di un diverso esito può essere alimentata dal fatto che le conquiste storiche, come appunto i sistemi di welfare europei, si dimostrano, non ostante i brutali tentativi di smontarli, particolarmente resistenti. Il conflitto sociale non è facilmente liquidabile. E anche la politica - come dimostrano i risultati elettorali in Francia - difficilmente può rimanere in una condizione d’inerzia di fronte al binomio austertà-riforme di struttura che non offre alcuna via d’uscita alla crisi e mette a repentaglio la stessa democrazia.

Il modello sociale è parte della tradizione democratica europea. Ha scritto recentemente Amartya Sen. “(L’austerità) può confliggere con una priorità più urgente, che in questo caso è di salvaguardare un’Europa democratica e impegnata per il benessere sociale. Sono questi i valori per i quali l’Europa si è battuta per molti decenni”. Sono questi valori che rendono il modello sociale europeo ancora, almeno in parte, refrattario alle famigerate riforme strutturali.  Ma sarebbe un’ingenuità grave disconoscere o sottovalutare l’attacco serrato al quale le oligarchie tecnocratiche e neo-conservatrici europee  lo sottopongono , profittando della crisi.

 Testo tratto dall’’intervento svolto in occasione della Conferenza internazionale Italia- Argentina  (Napoli, 18-19-20 giugno 2012) sul tema: “Il lavoro al centro. Modelli a confronto  per la costruzione di un nuovo contratto sociale”.