Gino Giugni, l'ultimo giurista "weimariano"

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Lo Statuto dei lavoratori si situava all’interno di una strategia promozionale del movimento sindacale che trova nella costituzione di Weimar e nella sua legislazione attuativa l’antecedente più significativo.

 
“Dimenticare Weimar” non è stato la caratteristica dominante soltanto di una cultura giuridica tendente a negare, come ha scritto Maurizio Fioravanti, che “una forte scienza del diritto pubblico (fosse) indispensabile all’indomani dell’entrata in vigore della costituzione proprio per sostenere la sua attuazione e la sua piena normatività”. Infatti, neanche durante e dopo la discussione parlamentare sullo statuto dei lavoratori venne messo adeguatamente in rilievo come il provvedimento si situasse all’interno di una strategia promozionale del movimento sindacale che trova nella costituzione di Weimar e nella sua legislazione attuativa l’antecedente più significativo. Lo statuto venne concordemente accostato alla legislazione del new deal roosveltiano.

Perché? perché, è la risposta, il suo papà – come ci siamo abituati a chiamare Gino Giugni – sentì di dover dispensargli il viatico per affrontare l’imminente viaggio, prevedibilmente tempestoso, rifacendosi a precedenti di successo durevole che, in quanto tali, incoraggiassero la fiducia e l’ottimismo. Nondimeno, sarebbe una sciocchezza immaginarsi che Giugni si sia astenuto dal compiere espliciti riferimenti ad ascendenze weimariane per quella specie di astuzia prossima alla superstizione che nel linguaggio corrente si chiama scaramanzia. La verità è che il percorso formativo della trama di coerenze di metodo e ideologiche riconoscibile nell’opera di Giugni è stato profondamente influenzato dal giovanile soggiorno di studio negli States.
 
Là frequenta la scuola del Wisconsin fondata da John Roger Commons. Là ascolta le lezioni di Selig Perlman. Da là torna persuaso che il processo di istituzionalizzazione del sindacato, se è una via obbligata per fargli raggiungere la maturità, deve però svilupparsi lontano dagli schemi del legalismo statalista che lo catturerebbero e ne altererebbero l’identità.
Dunque, se evita di enfatizzare i richiami alla vicenda storico-giuridica che aveva generato il moderno diritto del lavoro in Europa, ciò dipende dal fatto che sa come anche il più avanzato sistema di valori elaborato da un’assemblea costituente possa precocemente piegarsi nella direzione regressiva imposta dall’invisibile cabina di regia che presiede in ogni paese allo sviluppo del diritto vivente. Lo sa perché conosce l’esito disastroso del dibattito di cui furono protagonisti proprio i giuristi weimariani.

In un saggio scritto alla vigilia del crollo della Repubblica di Weimar, Otto Kahn-Freund aveva dimostrato che in essa il sindacato agiva più come strumento di attuazione di fini generali che come fattore propulsivo di innovazione e la realtà del conflitto industriale non era stata accettata come un dato fisiologico del pluralismo degli interessi. Nello stesso arco di tempo, Franz Neumann imputava alla giurisprudenza del dopo-rivoluzione la responsabilità di negare spessore giuridico ai diritti fondamentali riconosciuti dalla costituzione, “arrivando a minimizzarli e a vederli solo come l’espressione di principi programmatici in attesa di essere attuati”. “Venuto meno il grande progetto”, concordava Ernst Fraenkel, “si è persa anche la speranza di riuscire a trasformare l’organizzazione della società e dell’economia con l’aiuto del diritto del lavoro”.

Insomma, la metabolizzazione della lezione weimariana aveva fatto di Giugni un giurista positivo attento a non cadere nel dogmatismo neo-pandettistico di chi si aspetta da un testo costituzionale la soluzione definitiva e globale dei problemi del diritto sindacale e del lavoro [1].
Per questo, Gaetano Vardaro ritiene di poter rilevare che alla politica del diritto di cui è espressione il nostro modello giuslavoristico “può essere rimproverato un difetto di germanesimo ed un eccesso di anglo-americanismo” [2].
In Italia, infatti, non è da molto tempo che la cultura giuridica del lavoro si confronta con l’esperienza costituzionale della Repubblica di Weimar. I contatti non possono dirsi iniziati prima dell’intelligente e appassionata divulgazione di quell’esperienza ad opera del giurista testé menzionato [3].
 
Perché proprio lui?
Intanto, si può tranquillamente escludere che, in Italia, l’incentivazione ad aprirsi all’esperienza di Weimar la cultura giuridica del lavoro avrebbe potuto riceverla da un esponente della gius-pubblicistica. Un po’ perché stringenti ragioni di natura antropologico-culturale hanno determinato la frattura comunicativa tra i settori del sapere giuridico per i quali i problemi del lavoro potevano (e tuttora possono) rappresentare un terreno contendibile, perlomeno nella misura sufficiente a consentirvi la loro coabitazione. E un po’ perché, come ha documentato da ultimo Fulco Lanchester [4], l’interesse dei gius-pubblicisti italiani verso la Germania weimariana è sempre stato fiacco e di sostanziale rifiuto: valutata in età fascista a stregua di un esempio paradigmatico delle degenerazioni della democrazia, successivamente essa sarà oggetto di tutte le pratiche di esorcismo cui si presta lo “spauracchio” di una transizione ad un regime post-liberale che si è chiusa con l’avvento di un regime autoritario o peggio.

In secondo luogo, Gaetano Vardaro era allievo di Gino Giugni. E Giugni, che nel dopo-guerra aveva intrattenuto un rapporto da discepolo a maestro con Kahn-Freund formatosi nella scuola di pensiero di Hugo Sinzheimer, è stato il primo giurista italiano a riproporre la medesima controversia sul metodo destinata a ridefinire il modo d’essere giuristi del lavoro che proprio Sinzheimer aveva promosso nella Germania di Weimar. Il più longevo degli allievi diretti di quest’ultimo, Franz Mestiz, interpellato alcuni anni fa su cosa avesse imparato da lui, dichiarò di essergli debitore anzitutto perché Sinzheimer gli aveva trasmesso “la convinzione che (...) l’interpretazione tecnico-dogmatica del dato normativo è necessaria, ma non sufficiente per comprendere ed applicare il diritto del lavoro”. 

L’incisività del ruolo che Giugni svolse in qualità di policy-maker accademico aiuta senz’altro a rispondere alla domanda consistente nel sapere come e perché sia uscito vincente dal contenzioso che aveva visto soccombere Sinzheimer. E’ sufficiente dare uno sguardo alla sua biografia per ricavarne la sensazione che la Signora Storia stabilì con lui un rapporto più confidenziale che con altri. Nessuno però è in grado di stabilire chi fosse il corteggiato e il corteggiatore, se cioè fosse Gino a girarle attorno o, al contrario, fosse lei a non volerlo perdere di vista. E’ un dilemma della medesima natura esistenziale di quello che, secondo una sorridente ammissione dello stesso Giugni, contraddistingue il suo operato: “non saprò mai se sono un giurista prestato alla politica o un politico prestato al diritto”. 

Ciononostante, non basta dire che seppe combattere con impegno, sagacia e coraggio, sia perché queste doti non mancavano a Sinzheimer sia perché esse non sarebbero servite da sole ad evitare la sconfitta anche di Giugni. La verità è che Giugni ha potuto giovarsi del complesso delle circostanze che hanno consentito al diritto del lavoro del nostro paese di assumere forme espressive, e acquistare contenuti, che richiedevano una cultura giuridica rinnovata in base ad una metodologia solidale con i postulati della costituzione. Dopotutto, pur non essendo riusciti a superare del tutto la sindrome procurata dalla costituzione weimariana alla cultura giuridico-politica italiana, i nostri costituenti si proponevano ugualmente di prefigurare uno sbocco democratico alla rivoluzione del quadro politico-istituzionale e dei rapporti sociali che molti di loro avevano sognato negli anni trascorsi in esilio o al confino o nelle carceri del regime. 

Pertanto, se la sconfitta di Sinzheimer ha il valore semantico di una metafora della tragedia di Weimar che si consumò col logoramento di un programma gradualista di trasformazione dello Stato, l’opposta sorte che toccò a Giugni va messa in relazione col fatto che, nella Repubblica nata dalla Resistenza, i rapporti di potere tra le forze politiche si sono evoluti in modo da permettere al diritto del lavoro del dopo-costituzione di orientarsi in una direzione in cui, nella peggiore delle ipotesi, le incognite non superassero le opportunità. Infatti, della Repubblica italiana può dirsi l’esatto contrario di quel che si è soliti ripetere della Repubblica di Weimar: “nata da una sconfitta, ad essa rimase sempre legata”. Viceversa, figlia di un vittorioso movimento di riscatto popolare, la Repubblica italiana durerà, fornendo così un’ulteriore testimonianza che, come si esprime molto bene Peter Häberle, le costituzioni non sono “soltanto un’opera di normazione: sono anche l’espressione di uno stadio di sviluppo culturale, strumento di auto-rappresentazione culturale del popolo, specchio della sua eredità culturale e fondamento delle sue speranze” [5].
 
Vero è che – come ho appena accennato – Vardaro era un allievo di Giugni. Anzi, era il più brillante dei suoi numerosi allievi. Nondimeno, il dato non spiega da solo l’accentuarsi dell’interesse di Vardaro per la vicenda weimariana. Per farsene una ragione più precisa bisogna contestualizzare la scoperta vardariana di Weimar e dei suoi giuristi.
Essa si colloca nella seconda metà degli anni ’70, allorché acquista crescente trasparenza lo scambio politico che è all’origine dello statuto dei lavoratori. Benché sostenuto dalla convinzione che occorra accelerare la trasformazione della società italiana in una società industriale caratterizzata da un big labor contrapposto ad un big business – disposti entrambi a cooperare con un big government – il provvedimento legislativo è adottato anche per la necessità di mitigare le asprezze di un indistinto protagonismo di massa, rafforzando le organizzazioni degli interessi capaci di canalizzarlo. E’ a questo scopo che tende a somministrare dosi massicce di vitamine e proteine all’agente sociale che offra la garanzia di concorrere alla governabilità di una situazione complessa. “Esemplare”, commenta Vardaro nel 1983, è “il mutamento di funzione subito nell’ultimo decennio dal concetto di sindacato maggiormente rappresentativo. Nato come criterio di effettività, logicamente e giuridicamente radicato nella stagione della legislazione promozionale, esso tende a trasformarsi in maniera silenziosa e strisciante in una variante ‘prassista’ del sindacato riconosciuto”, ancorché sprovvisto della rituale personalità giuridica.

Come dire che Weimar ridiventa attuale perché in mezza Europa si pratica il culto del neo-corporativismo; e Weimar costituisce per l’appunto il prototipo delle democrazie a vocazione corporativa. Infatti, il new deal italiano è tramontato in fretta. Nonostante lo statuto che ne aveva solennizzato la nascita. Nonostante l’amnistia deliberata a ridosso dello statuto col proposito di fare un falò di una larga porzione delle 14 mila denunce penali contro operai e studenti autori di vere o presunte illegalità commesse in un clima arroventato che si vuole archiviare per ristabilire la normalità. Nonostante la firma di un rinnovo contrattuale che, costato una cifra-record di ore perdute per scioperi aziendali, nazionali ed anche generali, permetterà ai lavoratori metalmeccanici di lavorare di meno e guadagnare di più. 

Il fatto è che mancano i presupposti di base: il business è più straccione che grande; il government soffre di una instabilità cronica; il labor si scopre grande, ma la cultura del capitalismo con cui si trova a suo agio gli ispira comportamenti eminentemente antagonistici. A mancare, però, è soprattutto una coscienza democratica diffusa. Si racconta che, raggiunto dalla notizia della tragedia di Piazza Fontana il 12 dicembre del ’69 in apertura dell’ennesimo round del rinnovo del contratto per la categoria-pilota al centro dell’autunno caldo, il ministro incaricato della mediazione abbia esclamato: “o chiudiamo subito le trattative o arrivano i colonnelli”. In effetti, l’estremizzazione del confronto sindacale aveva evocato non soltanto la “grande paura” del biennio rosso che aveva disorientato la borghesia del primo dopo-guerra. Ha finito per evocare anche il nemico; un nemico senza nome né volto, la cui perizia ricattatoria emula quella delle forze eversive che, con lo svuotamento della costituzione tedesca del ‘19, cancellarono ogni traccia della rivoluzione del ’18.  

E’ in questo contesto, inquinato nelle sue falde più sotterranee, che Vardaro riscopre l’esperienza weimariana. La riscopre non appena le seduzioni del corporatismo con le quali si misurarono con diseguale lucidità e sensibilità gli intellettuali della sinistra giuridica weimariana cominciano a farsi sentire, confermando così la tendenza mitteleuropea di lungo periodo analizzata per primo da Charles Maier in La rifondazione dell’Europa borghese. La riscopre cioè col diffondersi della percezione che non solo nell’epoca della Repubblica di Weimar, ma anche nel nostro tardo Novecento il pluralismo si lascia ricondurre ad un’accezione più gierkiana che schmittiana. Da allora, le suggestioni che il “laboratorio Weimar” è in grado di produrre non hanno più abbandonato i giuristi del lavoro italiani: da allora, ne arricchiscono le categorie interpretative e ne influenzano i criteri valutativi.

La straripante letteratura sul neo-corporativismo in regimi di libertà sindacale ha posto in evidenza che l’alterità del sindacato rispetto allo Stato diminuisce nella stessa misura in cui il codice genetico del sindacato lo porta a cedere alla pressione di inserirsi stabilmente nella sotto-classe delle istituzioni in bilico tra pubblico e privato, ma più sbilanciate verso il pubblico che verso il privato. Che lo Stato annebbia la sua terzietà rispetto alle dinamiche sociali nella stessa misura in cui queste ultime assumono una dimensione istituzionale. E che la contrattazione collettiva, funzionalizzata ad interessi che non sono più soltanto privati, ha cessato di agire come fonte di auto-normazione sociale. 

Corposa, del resto, è la venatura corporatista che percorre la prassi della concertazione sociale culminata nell’accordo del 23 luglio 1993 di cui Giugni è stato il regista in qualità di ministro del lavoro in un governo della Repubblica. Anzi, è proprio la realtà istituzionale che emerge dietro il risultato più importante del dialogo sociale a rimandare – malgrado l’elevato tasso d’informalità – al modello giuslavoristico di Weimar. Per questo, Giugni non ha potuto consegnarsi alla memoria collettiva con l’immagine di un new dealer. Probabilmente, lo desiderava. Ma, come scrisse Federico Mancini, il new deal “è effettivamente impensabile fuori d’America: movimento home-grown, ‘cresciuto in casa’, se mai ve ne fu uno” [6]. In casa nostra, invece, altre sono le cose che crescono. Fatto sta che Giugni è l’ultimo dei giuristi weimariani che possono riconoscersi in Sinzheimer. 
 
Si sa che l’esperienza governativa di Giugni è stata breve. Però, il gusto dell’auto-ironia gli fece dire ad un intervistatore d’essere “contento” che fosse durata non più di quanto occorresse per “poter godere ancora di una buona reputazione”. L’aveva ottenuta sponsorizzando, da giurista prestato alla politica, la partnership istituzionale di sindacati di cui conosceva i ritardi storici quanto ad esperienza di autonomia e libertà. Da politico prestato al diritto, però, conosceva i rischi di una legittimazione della rappresentanza degli interessi più dall’alto che dal basso. Per questo, teorizzando l’originaria valenza normativa dell’ordinamento sindacale di fatto aveva precostituito l’habitat culturale che permette ai rappresentanti come ai rappresentati di sviluppare gli anticorpi. Difatti, l’idea su cui si basa lo statuto, l’idea di una legislazione premiale del sindacato senza regolazione legale del soggetto collettivo e della sua attività, riduce quei rischi al minimo storicamente possibile. Un giorno si saprà se il tempo è stato galantuomo. Tuttavia, è fin d’ora certo che Giugni fece quel che poteva; poi, è accaduto quel che doveva.
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[1] Al riguardo, sarebbe opportuno rileggere le pagine d’apertura del saggio Il diritto sindacale e i suoi interlocutori (1970), ora in G. Giugni, Lavoro leggi contratti, Bologna, 1989, pp. 183-191.
[2]Il diritto del lavoro nel “laboratorio Weimar, in Laboratorio Weimar, Roma, 1982, p. 8 (ora anche in Id., Itinerari, Milano, 1989, p. 23 ss.).
[3] Del più irrequieto dei giuristi che fecero parte della scuola di Hugo Sinzheimer – Franz L. Neumann – Vardaro allestì per il Mulino l’antologia Il diritto del lavoro fra democrazia e dittatura (1983). Essa seguiva a distanza di un solo anno quella cit. poc’anzi curata con G. Arrigo per i tipi di Edizioni Lavoro Laboratorio Weimar. Per ricchezza dei materiali selezionati, entrambe le antologie rappresentano un evento nella storia dell’editoria giuridica nel nostro paese con pochi riscontri in quella della stessa Germania. Esse contribuiranno ad alimentare il clima culturale che avrebbe suggerito a Vardaro di ideare e organizzare nell’Università di Urbino (28-30 aprile 1986) un seminario internazionale i cui Atti confluiranno in Diritto del lavoro e corporativismi in Europa: ieri e oggi (Milano, 1988).
[4] Le costituzioni tedesche da Francoforte a Bonn. Introduzione e testi, Milano, 2009.
[5]Introduzione a La legge fondamentale tedesca, Milano, 1997, p. 6.
[6]L’età di Roosevelt, Bologna, 1962, p. 20.

Umberto Romagnoli

Umberto Romagnoli, già professore di Diritto del Lavoro presso l'Università di Bologna. Membro dell'Editorial Board di Insight.