Perché l’ Unione europea non assiste la Grecia? L’argomento della falsificazione delle statistiche finanziarie e delle ragioni legali che impediscono il suo salvataggio finanziario non ha un reale fondamento. Il prossimo obiettivo dei mercati finanziari potrebbe essere la Spagna. Il problema di fondo nasce dalla inconsistenza delle politiche dell’Unione europea e dalla sua permanente vocazione deflazionista.
Nei primi mesi del 2010 la crisi finanziaria ha cambiato direzione Tra il 2008 e il 2009 le banche erano al centro della crisi, o perché erano all'origine del disastro, o perché erano oggetto di un grandioso quanto indiscusso salvataggio da parte degli Stati. La parola d’ordine era: "troppo grandi per lasciarle fallire". Oggi, il vento soffia in una diversa direzione. La crisi finanziaria mette a dura prova i bilanci pubblici, e le stesse persone che predicavano la necessità di salvare le banche senza risparmio di risorse dei contribuenti, oggi raccomandano di tagliare la spesa pubblica: in sostanza, una scelta deflazionistica, indifferente alla permanente debolezza dell’economia e alla disoccupazione di massa.
In breve, due differenti, anzi opposti, trattamenti tra le banche e gli Stati. L'esempio più eclatante è la Grecia. Il deficit di bilancio di questo piccolo paese mediterraneo tocca quasi il 13 per cento del Prodotto interno lordo. Indubbiamente, un livello elevato, ma non tanto diverso quello di molti altri paesi, a cominciare dalla Gran Bretagna che accusa un disavanzo di dimensioni analoghe. Con una differenza importante: la Grecia è membro dell'Unione monetaria europea e il suo deficit rappresenta una quota molto piccola del disavanzo complessivo di bilancio dell’UEM. Sarebbe stato sufficiente che le istituzioni finanziarie europee fornissero una garanzia del servizio del debito della Grecia per raffreddare la speculazione finanziaria. Ma l'UEM ha rifiutato ogni impegno concreto in questa direzione. La conseguenza di questa indifferenza è stata il libero corso alla speculazione con l’aggravamento dei problemi finanziari della Grecia che deve emettere titoli di Stato per oltre 50 miliardi di euro nel 2010. Una dimensione imponente. Ma non si tratta di un fenomeno isolato nell’attuale scenario di crisi globale.
Dal momento che la questione della falsificazione del bilancio non poteva fornire una giustificazione convincente per bloccare l'assistenza alla Grecia, è stato sollevato un argomento molto più sostanziale e intrigante: il divieto imposto dai trattati europei alle operazioni di salvataggio degli stati membri. Ma anche l'argomentazione giuridica non è così forte come sembra. Infatti l'articolo 122 del Trattato di Lisbona, entrato in vigore nel dicembre
Vale quindi la pena di tornare alla domanda: perché la Grecia non dovrebbe essere aiutata nelle attuali difficoltà finanziarie? Può l’Unione europea consentirne il default ? Un esito di questo tipo aprirebbe un nuovo imprevisto capitolo nella breve storia dell'Unione monetaria. In uno scenario di effetto-domino, altri Stati membri diventerebbero il bersaglio dei mercati finanziari. Portogallo e Spagna nella fase attuale – e, in prospettiva, anche l'Italia – sarebbero i prossimi obiettivi della speculazione finanziaria. In questo caso, l'onda lunga generata dal paesi periferici del Mediterraneo potrebbe originare uno tsunami valutario con un rischio di disintegrazione dell'eurozona.
In questo scenario, limitato ma più realistico, Jürgen Stark, capo economista della Banca centrale europea, non nasconde la sua preoccupazione reale: "Nella crisi attuale - ha detto a Der Spiegel – ci muoviamo tutti su un terreno sconosciuto ... (ma) l'obiettivo è e deve continuare ad essere che tutti i 27 paesi dell'UE hanno alla fine la stessa moneta ". Non è solo l'ambizione comprensibile di un banchiere centrale. La Germania mantiene un interesse fondamentale alla moneta comune. Come scrive il Financial Times Deutschland " (L’euro) è stato progettato per isolare l'industria e il commercio tedeschi dagli alti e bassi imprevedibili del mercato monetario internazionale. Come potevano le imprese automobilistiche tedesche affermarsi con successo nei mercati italiano, spagnolo e francese, dovendosi costantemente confrontare con la drastica svalutazione della lira, della peseta e del franco? Senza un'unione monetaria sarebbe stato impossibile ".
In questo quadro, il problema non è se la Grecia sarà salvata, ma a quali condizioni. Secondo le attuali posizioni di Bruxelles, la Grecia deve ridurre il suo disavanzo, pari a circa il 13 per cento nel 2009 al di sotto del 3 per cento nel 2012. Una cura da cavalli. Per ottenere questo risultato, s’impone alla Grecia di aumentare le tasse, tagliare i salari e le pensioni, ridurre gli investimenti pubblici. Si tratta ,in generale, delle tipiche misure imposte dal Fondo monetario internazionale – è sufficiente ricordare le condizioni imposte ai paesi asiatici alla fine degli anni Novanta e le loro tristi conseguenze economiche e sociali.
Perché imporre alla Grecia condizioni economicamente e socialmente devastanti? L'argomentazione è la seguente: la stabilità dipende dalla competitività che, a sua volta, dipende dalle riforme strutturali: riduzione dei salari, deregolamentazione del mercato del lavoro, taglio delle spese sociali. L'obiettivo è rafforzare la competitività puntando sul taglio del costo del lavoro. In effetti, un obiettivo illusorio poiché i salari, nonostante una deleteria deflazione interna, resterebbero in ogni caso, più elevati di quelli dei paesi dell'Europa centrale e orientale, già membri (o candidati) dell'Unione europea.
La spiegazione di questo atteggiamento europeo deve essere trovato nella volontà di impartire alla Grecia una punizione esemplare. La Grecia deve essere una lezione per gli altri stati membri. Otmar Issing, ex economista capo della Banca centrale europea, lo afferma apertamente quando in un articolo del Financial Times scrive: "Una volta che la Grecia è stata aiutata, la diga sarebbe rotta. Un salvataggio per il paese che ha rotto le regole renderebbe impossibile negare aiuto
ad altri ".
“ L’opinione dei mercati finanziari è che la Spagna, non la Grecia, è il relae bersaglio”. Eppure, fino a due anni fa, la situazione finanziaria della Spagna era invidiabile. Il debito era notevolmente al di sotto del parametro di Maastricht del 60 per cento del PIL – pari al 53 per cento ancora nel 2009 - e il bilancio in sostanziale equilibrio. Ma la bolla del mercato immobiliare ha devastato l'economia spagnola. Il deficit è balzato all’11 per cento del PIL, mentre il tasso di disoccupazione è vicino al 20 per cento della forza lavoro. Il capo del governo Zapatero ha sostenuto che il primo impegno del suo governo deve essere l'adozione di misure destinate a salvare l'economia e, su questa base, gradualmente rientrare dal deficit. Ma per le istituzioni europee questo approccio graduale, che mette in primo piano la ripresa economica, è inaccettabile. La cura prescritta è anche in questo caso quella delle cosiddette riforme strutturali dirette a un’ ulteriore deregolazione del mercato del lavoro, a ridurre il costo dei licenziamenti, a tagliare i salari e aumentare l’età pensionabile a 67 anni.
Le conseguenze della crisi mondiale stanno esacerbando i contrasti all'interno dell'Unione europea. Significa che esiste un rischio di disintegrazione? La risposta a me pare chiaramente: no. Il motivo principale è che la rottura dell’eurozona non corrisponde agli interessi di nessuno degli attuali sedici membri dell’Unione economica e monetaria, mentre i nuovi Stati membri (e quelli candidati) dell’Unione europea aspirano a entrarvi. La reale minaccia che pesa sul futuro della UEM è la sua permanente vocazione deflazionistica. Una vocazione incongruente e masochistica in un mondo che, per uscire dalla più grave crisi degli ultimi 80 anni, ha invece bisogno di rilancio dell’economia, di investimenti nei nuovi settori di crescita, di innovazione e di ripresa dell’occupazione. Il problema più grave non è il deficit di bilancio, una questione che pure interessa la maggior parte dei paesi, a cominciare da Stati Uniti e Gran Bretagna, ma una sostenuta ripresa economica.
Il vero problema strutturale della UE è costituito dagli enormi squilibri commerciali tra i paesi dell’eurozona, nella quale alcuni paesi accusano un permanente grave deficit delle partite correnti, mentre la Germania presenta un surplus commerciale che la pone al primo posto in Europa e al secondo, dopo la Cina, a livello mondiale. Non si può correggere questo tipo di squilibrio all’interno del mercato europeo puntando a un’ ipotetica maggiore competitività di alcuni paesi tramite la deflazione interna alimentata dal taglio dei salari e della spesa pubblica. In questo quadro la competitività diventa una giustificazione per il dumping sociale tra gli Stati membri dell'Unione. Una politica che genera contrasti all’interno, in evidente contraddizione con l'esigenza di aumentare la capacità globale dell'Unione nella sfida della crescente concorrenza globale delle potenze economiche emergenti.
Molti osservatori attribuiscono la responsabilità di questo stato di cose alla mancanza di potere delle istituzioni europee. Ma è un argomento viziato. Anche se non c'è un quadro politico federale, la BCE è una potente istituzione di tipo federale, e la Commissione europea è dotata dai trattati di un potere di indirizzo e di controllo determinante sul terreno delle politiche di bilancio e della concorrenza nel mercato unico. Non ci sono gli "Stati Uniti d'Europa", ma è un errore sottovalutare l'importanza del quadro istituzionale realizzato. Il problema è negli indirizzi delle politiche. Attraverso il Patto di stabilità e crescita e l’ossessivo atteggiamento antinflazionistico della BCE, l’Unione economica e monetaria europea è stata bloccata negli ultimi dieci anni in una sostanziale stagnazione.
Non vi è dubbio che la Grecia e gli altri Stati membri dell'Unione europea debbano, in generale, migliorare la loro competitività, ma questo obiettivo è ragionevole e raggiungibile solo in un quadro di crescita complessiva dell'Unione, a cominciare dalla Germania che ha dimostrato, dopo l'avvento dell'euro, una domanda interna permanentemente compressa di fronte al surplus commerciale realizzato nei confronti degli altri paesi membri dell’Unione.
Può sembrare paradossale, ma, nonostante i suoi clamorosi fallimenti, il reaganismo ha i suoi eredi più fedeli in seno all'Unione europea. Come spiega Alain Supiot, l'integrazione europea è gestita come uno strumento di decostruzione della dimensione sociale. Potremmo dire che l'asse Francoforte-Bruxelles è diventato il formato europeo dello screditato "Washington consensus”: una sorta di neo-liberalismo intrecciato con forme diffuse di dumping sociale nella miope ricerca di accrescimento della competitività tra gli Stati membri, invece di puntare sulla cooperazione interna diretta ad accrescere la competitività dell’insieme dell’Unione europea, la prima potenza economica al mondo con mezzo miliardo di cittadini, nei confronti della sfida globale che minaccia di emarginarla.
Collocato in questo quadro più ampio, l'atteggiamento nei confronti della crisi finanziaria della Grecia e della minaccia che incombe su altri paesi membri diventa un'indicazione illuminante sul percorso che l'Unione europea sceglierà per far fronte alle conseguenze economiche e sociali della crisi mondiale e all'incertezza che grava sul proprio futuro.