Alessandro Roncaglia, Accademia Nazionale dei Lincei
In questi giorni si è parlato tanto del Manifesto di Ventotene, proponendone interpretazioni contrastanti. Proviamo a riconsiderarlo, sine ira ac studio, seguendo le regole della filologia, che è la scienza dell’interpretazione delle opere letterarie, di qualsiasi tipo esse siano: fedeltà al testo, rispetto del contesto.
Il Manifesto di Ventotene, lungamente discusso e scritto nel 1941 da tre confinati nell’isola di Ventotene (Eugenio Colorni, Ernesto Rossi, Altiero Spinelli), propone un’Europa federale, in opposizione all’Europa sovranista che aveva portato a due guerre mondiali – l’ultima, all’epoca ancora in corso, scatenata dai sovranismi nazista e fascista. La sua fonte di ispirazione erano le Lettere di Junius, una serie di articoli pubblicati da Luigi Einaudi sul Corriere della Sera nel corso della prima guerra mondiale, tra il 1917 ed il 1918, considerati l’atto fondativo del federalismo europeo. Einaudi a sua volta riprendeva la tradizione del federalismo di Carlo Cattaneo, di un sistema a più livelli di governo caratterizzati da sussidiarietà (come scriveva lo stesso Einaudi, “Federazione … è il contrario di assoggettamento dei vari stati e delle varie regioni a un unico centro”). A questo i tre estensori aggiungevano una ispirazione che si rifaceva al liberal-socialismo di Carlo Rosselli, ma aperta a quanti volessero collaborare alla nascita dell’Europa unita pur da posizioni politiche diverse, purché democratiche.
Il Manifesto si apre così: “La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l’uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita”. Subito dopo viene la critica agli stati nazionali (“La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio di ciascuno di essi”), seguita da un’ampia critica ai totalitarismi, che sarebbero destinati a prevalere nella concorrenza tra stati sovrani, accompagnata da una critica ai “ceti privilegiati che avevano consentito all’eguaglianza dei diritti politici” ma poi si erano sentiti minacciati dall’avanzata delle classi meno abbienti e avevano appoggiato l’instaurazione delle dittature (sottinteso: come nel caso di Benedetto Croce, che prima di scrivere il Manifesto degli intellettuali antifascisti aveva continuato a votare a favore del governo Mussolini perfino subito dopo l’assassinio di Matteotti).
La seconda parte del Manifesto sviluppa l’idea dell’unità europea, da ottenere con un’azione rivoluzionaria che abbatta i regimi totalitari all’epoca dominanti in tutta l’Europa. Si avrà così “il trionfo delle tendenze democratiche. Esse hanno innumerevoli sfumature, che vanno da un liberalismo molto conservatore fino al socialismo e all’anarchia”. È questo l’obiettivo della lotta rivoluzionaria, non l’instaurazione di una dittatura comunista. Anzi, “seguaci della politica classista e dell’ideale collettivista, i comunisti … si sono trasformati in un movimento rigidamente disciplinato, che sfrutta il mito russo per organizzare gli operai, ma non prende legge da essi e li utilizza nelle più disparate manovre.” Certo, “Se il popolo è immaturo [si darà una costituzione] cattiva; ma correggerla si potrà solo mediante una costante opera di convinzione”.
“Il punto sul quale [le forze reazionarie] cercheranno di far leva [per conservare la loro supremazia] sarà la restaurazione dello stato nazionale”. Si ritiene “ormai dimostrata l’inutilità, anzi la dannosità, di organismi sul tipo della Società delle Nazioni”: è necessario uno sforzo in direzione federalista. Anche in questo il Manifesto segue il pensiero di Einaudi che, con le Lettere di Junius reagiva per l’appunto alla proposta di costituire una “Società delle Nazioni” avanzata dal presidente USA, Wilson. La Società delle Nazioni, fondata nel 1919, fu estinta ad aprile del 1946 in seguito al fallimento rappresentato dalla seconda guerra mondiale.
La terza parte del Manifesto riguarda “la riforma della società”, che “dovrà essere socialista, cioè dovrà proporsi l’emancipazione delle classi lavoratrici e la realizzazione per esse di condizioni più umane di vita”. A questo proposito si dice chiaramente che “la statizzazione generale dell’economia … una volta realizzata in pieno non porta allo scopo sognato, bensì alla costituzione di un regime in cui tutta la popolazione è asservita alla ristretta classe dei burocrati gestori dell’economia”. “Il principio veramente fondamentale del socialismo, e di cui quello della collettivizzazione generale non è stato che una affrettata ed erronea deduzione, è quello secondo il quale le forze economiche non debbono dominare gli uomini, ma … essere da loro sottomesse, guidate, controllate nel modo più razionale, affinché le grandi masse non ne sieno vittime.” Si tratta di passi che richiamano direttamente i principi del socialismo liberale di Carlo Rosselli, grande amico e compagno di lotta di Ernesto Rossi in Giustizia e libertà. Segue il passo: “La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio”. Come è possibile trasformare questo passo in una apologia della collettivizzazione forzata?
La fase immediata di lotta contro i totalitarismi dominanti discussa nelle pagine finali non è, per nostra fortuna, di attualità oggi: ricordiamo che il Manifesto fu scritto nel 1941, quattro anni prima della fine della guerra, quando l’Europa era, dall’Atlantico agli Urali, praticamente tutta governata da dittature. Per chi se ne fosse dimenticato, quella era una fase in cui non si poteva fare ricorso allo strumento democratico delle elezioni per lottare contro le dittature: la Resistenza fu, necessariamente, lotta armata. Riprendere passi da queste pagine, senza ricordare il contesto, è una violazione delle regole filologiche di rispetto del contesto: un insulto, simultaneamente, agli autori del Manifesto, alla verità e alla scienza.
Infine, un cenno particolare alla figura di Ernesto Rossi: membro di Giustizia e libertà, con forti convinzioni politiche che fondevano la proposta del federalismo europeo con l’aspirazione alla giustizia sociale e a una ispirazione liberale, allo stesso tempo capace di confrontarsi nel rispetto reciproco con quanti avevano idee diverse dalla sua, dai comunisti con i quali condivideva il carcere o il confino a liberali conservatori come Luigi Einaudi con il quale ebbe una lunga amicizia, testimoniata da un ampio epistolario (Luigi Einaudi – Ernesto Rossi, Carteggio (1925-1961), Fondazione Luigi Einaudi, 1988).
Alessandro Roncaglia, Accademia Nazionale dei Lincei