Autonomia e presidenzialismo - La stagione delle riforme "identitarie"

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il Parlamento s’occuperà non degli scottanti problemi del Paese, giacenti impolverati, ma soprattutto di riforma costituzionale.

 Nel Consiglio di venerdì scorso la Presidente Meloni e i suoi Ministri – cioè i partiti della maggioranza – hanno aperto la campagna elettorale della destra per le elezioni europee del 2024, approvando il disegno di riforma costituzionale. Cercano così di compensare l’impossibilità – causa ristrettezze e tagli della manovra finanziaria – di soddisfare le mirabolanti promesse elettorali. Per essi è vitale presentarsi alle europee (quando si voterà un partito, non una coalizione) vantando almeno l’avvio delle riforme cosiddette “identitarie”: il “presidenzialismo” per FdI; la famigerata “autonomia regionale differenziata” di Calderoli per Lega-Nord. Inizia così la procedura “aggravata” dell’art. 138 Cost.: doppia lettura e maggioranza assoluta. Sicché il Parlamento s’occuperà non degli scottanti problemi del Paese, giacenti impolverati, ma soprattutto di riforma costituzionale. Sull’autonomia differenziata s’è molto detto dei gravi danni al Mezzogiorno, che pure ha le sue colpe (v. Scamardella nell’editoriale sul nostro giornale martedì scorso).

Il presidenzialismo è altrettanto se non più preoccupante. Sorvoliamo sui dettagli della bozza d’una riforma “sostanzialmente presidenzialista”.

Astutamente, per renderla accettabile, Meloni dal presidenzialismo ripiega sul cosiddetto “premierato”.

Cambia il nome, non la sostanza: elezione diretta del Premier con maggioranza parlamentare al 55% (per evitare ribaltoni). Negli anni ’50 del ‘900 analoga proposta (meno pesante) fu definita “legge-truffa”. Il Premier ha tutti i poteri tolti al Presidente della Repubblica, che rimane ma non sa che fare. Probabilmente qualcuno dirà (s’indovini chi): “il Quirinale costa molto e lavora poco”!

Lo stesso Parlamento viene in pratica snaturato, privato delle più importanti prerogative. Senza dubbio l’equilibrio dei poteri tra Governo e Parlamento è da tempo sconvolto dal “presidenzialismo di fatto” (molti decreti-legge); ma mai fino al punto di fare dei parlamentari della maggioranza altrettanti soldatini (già adesso si vieta loro la presentazione d’emendamenti ai disegni governativi). Peraltro, di questa riforma, per ora la stampa enfatizza l’abolizione dei “senatori a vita”. 

La “madre di tutte le riforme” (marchio Meloni) stravolge l’assetto costituzionale della Repubblica. L’hanno detto quasi tutti i costituzionalisti italiani, preoccupati dell’assenza, in un Paese come l’Italia, dei necessari pesi e contrappesi istituzionali. Partendo proprio dal Capo dello Stato, garante super partes che oggi valuta con oggettività i risultati elettorali e, sentiti i partiti, affida l’incarico a chi ha la necessaria competenza, oltre alla maggioranza per governare.

Senza escludere l’ipotesi del “governo tecnico”: che, nell’assoluto rispetto della sovranità popolare, è legittimato dalla fiducia delle Camere. Ipotesi d’emergenza ma, come s’è visto, talora indispensabile per riparare precedenti disastri economico-finanziari, salvando il Paese dalla bancarotta.

Non è vero che l’elezione diretta del Premier garantisca governabilità. Questa riforma difatti prevede una sorta di staffetta con altro Premier (della stessa maggioranza, ma non eletto). Probabile il rischio di continuo ricorso a elezioni anticipate. Perché la stabilità dipende dalla maturità dei cittadini (dei quali, ricordiamolo, il 40% ora non vota) e da partiti rappresentativi. Dunque sarebbero prioritarie: una “legge sui partiti” (per l’efficiente organizzazione dell’attività); una coerente “legge elettorale” (per convincere i cittadini all’effettiva partecipazione democratica); una revisione dei “regolamenti parlamentari”.

La destra invece vuole costruire l’edificio istituzionale partendo dal tetto (la Costituzione) anziché dalle fondamenta (cittadini, partiti, dialettica parlamentare).    

Comunque, prescindendo dalle questioni tecnico-giuridiche, ai cittadini vanno chiariti i meccanismi costituzionali concepiti dalla destra. L’art. 138/3 Cost. impone: “non si fa luogo a referendum se la legge [costituzionale] è stata approvata nella seconda votazione da ciascuna delle Camere a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti”. La destra non ha i numeri, neppure coll’eventuale sostegno della “Italia viva” di Renzi che vuole rivalersi d’aver perso il referendum del 2016 che bocciò la sua riforma costituzionale. Chiediamoci: davvero i cittadini fremono di sapere la sera dell’elezione chi sarà Premier? Anche se – grazie ai populismi e a quest’obbrobrio giuridico – uscisse vincitore un politico inesperto e inaffidabile che sa fare campagna elettorale e non sa governare? Poiché “la sovranità appartiene al popolo”, al referendum esso sarà più responsabile di chi oggi lo rappresenta in maggioranza, ma solo del 60% dei votanti. E però pretende di stravolgere la Costituzione. 
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(Da Corriere del Mezzogiorno, 5 Novembre)

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.