Il salario miinimo è necessario

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La destra, con una punta d’ipocrisia, dice d’essere contraria al salario minimo legale per rispetto dell’autonomia sindacale e della contrattazione collettiva.

Solitamente un dato ideologico divide, la coerenza logica unisce. Sempre che se ne accetti l’oggettività. Nel nostro caso il Governo dovrebbe accettare d’accompagnare riduzione e abolizione del reddito di cittadinanza coll’istituzione del “salario minimo legale”. Molti lavoratori infatti non godono del “salario minimo sindacale”. Se la principale ragione d’abolire il reddito di cittadinanza davvero fosse che se n’è abusato – e il Governo vuole garantire lavoro, non sussidi – per coerenza logica andrebbero anzitutto rimosse le cause degli abusi. C’era chi preferiva il “divano” al “lavoro-mal-pagato”? O chi cumulava reddito e compenso del “lavoro-nero-peggio-pagato”? D’accordo: si contrasti l’abuso col “salario minimo legale” se non c’è il “salario minimo sindacale”! Il Governo si dice contrario al “salario legale” per non sovrapporsi alla contrattazione cui spetta stabilire le retribuzioni. Giustissimo in teoria, in pratica irrealistico e illogico.

Non si rispetta l’autonomia sindacale se manca una contrattazione vera per “tutti” i lavoratori. Tanti invece non rientrano nella sfera applicativa d’un contratto. O accettano un trattamento sotto il minimo vitale, costretti da un contratto “pirata” (concluso da un sindacato non rappresentativo o addirittura “di comodo” cioè colluso col datore). Persino un contratto collettivo giuridicamente ineccepibile potrebbe contemplare un salario inferiore al minimo vitale per debolezza del sindacato contraente. Eppure in Italia esiste persino un “salario minimo costituzionale”.

L’art. 36/1, della Carta detta i criteri d’ogni genere d’accordo sulla retribuzione del lavoro e per ogni tipo di rapporto (subordinato; autonomo; stabile; a termine; parziale ecc.). La norma è chiarissima: <<il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa>>.

La disposizione vale anzitutto per i datori di lavoro. Non a caso dagli anni ’50 del 900 i Giudici – riconoscendo nell’art. 36 un vero e proprio diritto del lavoratore – impongono al datore l’obbligo d’una retribuzione proporzionata e sufficiente (una sorta di “salario minimo giurisprudenziale”). Ma la stessa disposizione devono rispettarla pure le organizzazioni datoriali e sindacali. Che, quando stipulano un contratto collettivo a qualsiasi livello (nazionale, territoriale o aziendale), devono ispirarsi all’art. 36 stabilendo i minimi retributivi, ovviamente suscettibili soltanto di miglioramenti: attuali o potenziali.

Oggi la disposizione costituzionale è disattesa (specie per le fasce meno alte di lavoratori). I salari italiani – nel confronto coi Paesi europei – sono bassi in quasi tutti i settori produttivi: per operai e impiegati. Ma financo per insegnanti, operatori sanitari ecc. Perciò si parla di “lavoro povero” e d’impoverimento della media borghesia. Difatti, da un lato, i contratti collettivi si sono moltiplicati – per il moltiplicarsi di sindacati “piccoli” ma compiacenti nel contrarre con imprenditori o rappresentanze imprenditoriali – e, dall’altro lato, troppi contratti da tempo non si rinnovano. Senza contare poi l’erosione dei salari dovuta all’inflazione.    

C’è un’altra grave incoerenza logica di Governo e maggioranza. Ripeto: la destra, con una punta d’ipocrisia, dice d’essere contraria al salario minimo legale per rispetto dell’autonomia sindacale e della contrattazione collettiva. Se fosse vero, potrebbe facilmente dimostrarlo. Basterebbe colmare la lacuna legislativa che da tempo rende opaca l’effettiva rappresentanza degl’interessi e insufficiente la contrattazione. In sostanza il rifiuto del salario minimo legale sarebbe logicamente coerente solo se accompagnato – in piena sincronia – dall’ipotesi d’una appropriata legislazione su rappresentatività sindacale ed efficacia della contrattazione.

Innegabilmente pure i Governi precedenti sono responsabili di non essere intervenuti in materia. Coll’unico attenuante che gli ultimi tre lustri sono trascorsi in perenne emergenza: economica, politica e sanitaria. Ora però i partiti di centro-sinistra hanno almeno preso l’iniziativa del “salario legale”. Un intervento parziale, certo non risolutivo del complesso e urgente problema salariale, ma allo stato meglio di niente. Una volta fissato per legge un minimo salariale, si agevolerebbe l’azione sindacale per migliorare le retribuzioni.

Fondato allora è il sospetto che sia il dato ideologico a incidere sulla contrarietà della destra: evidentemente l’attuale confusa situazione le conviene perché protegge gl’interessi particolari dei suoi elettori. Nessuna meraviglia, purché non millanti che la legge concepita il 1° maggio – ed esaltata come un traguardo eccezionale – sia nell’interesse generale, specie dei lavoratori. Non basta un titolo roboante – <<inclusione sociale e accesso al mondo del lavoro>> -- per meritare credito ed entrare nella storia del diritto del lavoro italiano
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(Da "Corriere del Mezzogiorno", domenica 9 luglio 2023)

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.