Pubblica amministrazione - Una riforma prioritaria

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E' sbagliato parlare genericamente di “riforma della pubblica amministrazione” come se l’amministrazione fosse un aggregato monolitico.

E’ passata inosservata un’affermazione importante della Presidente Meloni nella conferenza-stampa di giovedì scorso: dedicherà particolare attenzione, nel 2024, alla riforma della pubblica amministrazione, considerata prioritaria (assieme alla giustizia). Ottimo proposito: se non funziona la macchina amministrativa, addio obiettivi politici. Logicamente molto dipende dalla piega d’una riforma che – questa sì, non il “premierato” – è davvero la “madre di tutte le riforme”.

Negli ultimi decenni ci sono state varie iniziative in materia, dovute ai Ministri della Funzione pubblica succedutisi. Quasi sempre interventi parziali, sicché nessuno può considerarsi <<il>> riformatore della burocrazia. Eppure l’inefficienza degli apparati pubblici (specie del Mezzogiorno) è il problema più spinoso che l’Italia si porta dietro da tempo. Non risolto, è una delle cause degli antichi gravi ritardi del Paese. 

Ma è tanto difficile rendere efficiente l’amministrazione? Quali le difficoltà d’una riforma dalla quale dipende la normale convivenza civile? Le difficoltà sono sia tecniche sia politiche. Attualmente la presenza d’istituzioni pubbliche nella vita economico-sociale e politica – Stato centrale, Regioni, Enti locali, previdenziali ecc. – è talmente massiccia da rendere complessa una riforma per così dire “generalista”. Le principali difficoltà tecniche delle leggi in materia sono d’impostazione. Per esempio, è sbagliato parlare genericamente di “riforma della pubblica amministrazione” come se l’amministrazione fosse un aggregato monolitico.

Laddove essa è composta di amministrazioni tra loro differenti per funzioni o per eterogeneità di servizi erogati. Ogni apparato ha proprie caratteristiche e richiede interventi ad hoc: la burocrazia centrale è diversa dalle burocrazie locali; la sanità è diversa dalla scuola o dai beni culturali o dalla polizia. E’ sbagliato pure pensare che una riforma consista soltanto e necessariamente nell’elaborazione d’una nuova legge.

La legge è indispensabile ma in genere copre una parte del quadro riformatore; un’altra parte, altrettanto rilevante, dipende dal dato economico-finanziario. E su tutto campeggia la “cultura dell’organizzazione”, quella che in Italia lascia tanto a desiderare a tutti i livelli.

Un altro errore d’impostazione è confondere riforma “della pubblica amministrazione” e riforma “del lavoro pubblico”. Infatti – fermo restando la centralità delle risorse umane in qualunque organizzazione (pubblica o privata) – è evidente che l’inquadramento dei dipendenti e i modi di lavorare differiscono a seconda dei modelli organizzativi. Dunque la razionalità dell’organizzazione come pure la semplificazione e speditezza delle procedure devono precedere la disciplina del lavoro, peraltro demandata alla contrattazione sindacale.

In realtà l’unico tratto comune a tutti i lavoratori pubblici è la “dipendenza” da una pubblica amministrazione. Il che comporta una certa rilevanza dell’interesse generale nel contratto di lavoro. Mentre, per il resto, è dall’incisiva riforma del 1993 che si applicano anche a essi: la disciplina del Codice civile sul rapporto di lavoro nell’impresa; le disposizioni dei contratti collettivi; la giurisdizione del giudice del lavoro.

Adesso aspettiamo il progetto di riforma amministrativa della Presidente Meloni e dell’attuale Ministro Paolo Zangrillo. Il quale in una recente intervista (Il Mattino, 2.1.24) traccia alcuni criteri d’una prossima iniziativa. Due scontati: il “merito” e la “managerialità”. L’altro, la “digitalizzazione”, abbastanza nuovo ma destinato a balzare in primo piano. Giustamente: così le pubbliche amministrazioni cominceranno finalmente a parlarsi tra loro, bruciando i tempi del passaggio di carte da un ufficio all’altro. Rovescio della medaglia è che la digitalizzazione penalizzi cittadini e utenti (soprattutto anziani).  

Passando infine dalle difficoltà tecniche a quelle politiche, il discorso si complica e merita trattazione a parte, dato il legame, non sempre trasparente, fra politici e burocrati: impiegano tempo ed energia nella reciproca invasione delle rispettive sfere d’azione. Sanno di non poter fare a meno gli uni degli altri, ma stentano a trovare una decente relazione istituzionale: da servitori dello Stato, non del Governo. E la politica ne approfitta per affermare la prassi deteriore dello spoil system.
(Da "Corriere del Mezzogiorno -  Gernnaio 2024)

Mario Rusciano

Professore Emerito di Diritto del lavoro, Università di Napoli Federico II.