Editoriale - L’incerto futuro della crisi

Quando scoppiò la crisi finanziaria molti analisti spiegarono che dietro l’alterazione delle regole finanziarie e la grande speculazione bancaria vi era l’ esplosivo squilibrio dei redditi e la  diseguaglianza accumulata nel corso degli ultimi  decenni. Le banche avevano speculato sull’indebitamento costruendo castelli di carta di derivati  e assicurazioni non esigibili. Per alcuni analisti l’indebitamento era la conseguenza di una diffusa irresponsabilità, ma per altri l’espressione di un’economia squilibrata, dominata da una crescente diseguaglianza, basata appunto sull’indebitamento.

 
Ma anche se le ragioni della crisi erano complesse e profonde, per controllarla e non rischiare una nuova Grande Depressione, bisognava innanzitutto bloccare la crisi dei mercati finanziari attraverso il salvataggio delle banche. Questo fu considerato l’ingrediente essenziale e preliminare per rimettere in sesto l’economia reale e fronteggiare le pesanti conseguenze sociali. Le risorse messe a disposizione del salvataggio delle banche furono colossali.  Il bailout funzionò. Negli Usa due grandi banche d’affari sono scomparse, ma le cinque rimanenti sono diventate ancora più grandi , hanno fatto profitti insperati e annunciato la distribuzione di decine di miliardi di dollari di bonus. La crisi è stata, sotto questo punto di vista, dichiarata superata.
 
Sembrò pertanto arrivato il tempo del rilancio dell’economia reale e del contrasto alla disoccupazione, giunta al dieci per cento tanto negli Stati Uniti, il livello più alto da un quarto di secolo, quanto nell’Unione europea. Ma qui si pone una domanda. I governi che hanno operato, senza esitazioni, il grande salvataggio delle banche sono anche pronti ad attuare gli interventi necessari per rilanciare l’economia reale e combattere la nuova disoccupazione di massa? La risposta a questo interrogativo è incerta. E, anzi, per molti aspetti appare negativa.
 
La crescita continua a languire e si annuncia jobless. Per tornare ai vecchi livelli di occupazione, con i ritmi di crescita previsti, bisognerà attendere molti anni. Per evitare le gravi conseguenze sociali legate alla disoccupazione a lungo termine sarebbe necessaria una forte politica di stimolo della crescita sia dal lato dell’offerta che della domanda, adottando misure dirette a rafforzare l’eguaglianza nella distribuzione dei redditi e della ricchezza, nella consapevolezza che in questo quadro l’occupazione è il primo essenziale obiettivo. Si tratta di interventi che erano stati annunciati dai governi, e con particolare forza, dall’amministrazione americana, sin dalla prima fase della crisi. Ma ora che le banche sono state salvate (anche se l’indebitamento nascosto nelle pieghe dei bilanci rimane minaccioso), gli analisti e i governanti di parte conservatrice sostengono che la politica di rilancio non può essere attuata. Per due ragioni. La prima è l’elevato disavanzo dei bilanci pubblici col conseguente aumento del debito. La seconda è il rischio di accendere l’inflazione.
 
Siamo così di fronte a uno stupefacente paradosso. Il disavanzo è, da un lato, la conseguenza della recessione originata dal caos della finanza; dall’altro, del dispendio di risorse per salvare le banche che erano all’origine del caos. Ora, per le conseguenze sui bilanci pubblici derivanti dal salvataggio delle banche, considerato il primo passo, non si può compiere il secondo passo: l’intervento necessario per il rilancio dell’economia reale e la ripresa dell’occupazione.
 
Obama, nel discorso sullo stato dell’Unione, ha ribadito la necessità del contributo pubblico al rilancio degli investimenti nei nuovi settori di punta ma, in contraddizione con questo obiettivo, è stato costretto dall’offensiva conservatrice a impegnarsi a una politica di austerità e di freno della spesa pubblica. La BCE attende il momento di poter metter in atto l’exit strategy per tornare a una politica monetaria di contrasto ai rischi di inflazione, anche se questi appaiono del tutto remoti.  La Commissione europea ammonisce gli Stati membri sulla necessità di rientrare in un breve lasso di tempo dai disavanzi di bilancio, in ottemperanza dei criteri di Maastricht.
 
Ma non è tutto. Dal momento che una politica di bilancio restrittiva non può fornire una speranza di rilancio della domanda e degli investimenti, la ripresa della crescita deve essere affidata, secondo la Commissione europea, a un forte incremento della competitività. Che, a sua volta, implica un ulteriore dose di deregolazione dei mercati del lavoro, la stagnazione dei salari, favorita dall’alta disoccupazione, e il contenimento della spesa sociale.
 
Siamo, dunque, al cospetto di un inesorabile ritorno all’ortodossia degli ultimi decenni? All’inizio della crisi l’intervento massiccio dello Stato è stato invocato come necessario per salvare i mercati finanziari. Oggi lo Stato viene considerato un pericoloso Leviatano. La riforma sanitaria in America, emblema di un nuovo modello di politica sociale, appare profondamente indebolita, se non alla vigilia del fallimento. La riforma della finanza incontra ostacoli formidabili. Il tema della diseguaglianza è tornato nell’ombra. Ma proprio la gravità della crisi e delle sue conseguenze sono destinate a far riemergere i problemi di riforma del vecchio assetto economico e sociale. E anche per questo vale la pena di riproporre la domanda. Quali insegnamenti ci consegna quella che è stata considerata la crisi più grave dopo la Grande Depressione degli anni Trenta?
 
L’iniziativa di Insight, è dedicata all’analisi dell’intreccio fra la dimensione economica e sociale della crisi, della sua origine e delle sue prospettive. Insight non ha la pretesa di indicare ricette prefabbricate. Si presenta come uno strumento nuovo nella sua scelta multilingue. Ma con un obiettivo comune: contribuire al confronto delle analisi e delle proposte, al di là dei confini tradizionali.
 
Gli articoli e i papers che sono presenti in questo numero di prova hanno un carattere esemplificativo, e tuttavia significativo del terreno sul quale Insight intende muoversi. Un vasto gruppo di istituti di ricerca, di economisti, di giuristi del lavoro, di operatori sindacali – di cui in fondo riportiamo alcuni nomi - ha manifestato il proprio interesse a questa iniziativa e ha contribuito al suo avvio. Ora si tratta di consolidare e allargare l’attenzione e il consenso che ha realizzato nella fase di costruzione per consentirle di svolgere il compito che, con la sua nascita, si è prefisso. Ciò sarà possibile solo con la partecipazione, i suggerimenti, il contributo di idee e proposte di tutti coloro che considerano importante rilanciare una riflessione collettiva sull’incerto futuro della crisi, confrontando le analisi e le proposte che si collocano nel variegato mondo della sinistra “liberal” e progressista.