Da riscrivere i manuali di economia

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"Dove ha sbagliato la teoria economica?", si chiedeva questa estate l'"Economist". Per concludere che le teorie prevalenti non hanno alcuna proposta rilevante su come affrontare e risolvere la crisi. Le idee-guida degli ultimi 30 anni  si sono dimostrate tanto indiscusse quanto erronee.

L’estate è considerata un periodo di ristagno del dibattito politico che apre spazi inaspettati per rompere la coltre della discussione ingessata sui grandi temi dell’agenda politica nazionale e internazionale dettati dalle istituzioni e dai grandi ”policy makers”. La chiusura estiva dei Parlamenti, lo spirito mentale delle vacanze, tolgono infatti spazio ai punti soliti di riferimento dai quali si alimenta il dibattito. A volte ci pensano le guerre a polarizzare l’attenzione ma anche queste, ormai, non elettrizzano poi più di tanto. Quindi una pausa aperta alla riflessione, favorita dal calo del rumore mediatico, nella quale si inseriscono contributi degni di attenzione.

Il settimanale inglese the Economist ha utilizzato la quiete estiva per riflettere su ”Dove ha sbagliato la teoria economica?” (What went wrong with economics?, Jul 16th 2009). La domanda è giustamente rivolta alla teoria economica e finanziaria che oggi domina nell’insegnamento delle nostre università e che quindi a ragione si può considerare il pensiero prevalente (mainstream economics). Domanda impertinente perchè come d’uso di fronte alle crisi e ai fallimenti, spesso non previste, gli economisti sono soliti lanciarsi in audaci interpretazioni come se il tutto rientrasse nel percorso normale dei fatti e del loro pensiero. La domanda dell’Economist è corredata da due osservazioni pesanti: la prima è che le conclusioni basate su queste teorie prevalenti hanno contribuito attivamente a produrre la crisi; la seconda è che la dimensione della crisi non è stata capita, neanche quando questa si è manifestata con i suoi effetti concreti. Infine, si afferma che queste teorie prevalenti non hanno alcuna proposta rilevante su come affrontare e risolvere la crisi (’no idea how to fix it’).
 
Non è strano per noi, ovviamente, che gli economisti ufficiali e gli osservatori economici dei mass media, di solito così sensibili e pronti a riprendere le opinioni della stampa internazionale, stiano passando sotto silenzio questa bordata contro la teoria economica ufficiale, peraltro affiancata da una serie di dichiarazioni come quella di Paul Krugman, premio Nobel per l’economia, secondo il quale lo sviluppo della teoria macroeconomica nel corso degli ultimi trenta anni è stato inutile quando non direttamente dannoso. The Economist assume una posizione più morbida ed interrogativa aprendo alla possibilità che gli economisti fossero consapevoli dei limiti dei loro modelli nella interpretazione dello sviluppo economico, ma insiste sul fatto che questi loro dubbi e riserve non sono stati manifestati nel corso della vasta ”liberalizzazione” dei mercati finanziari nazionali e internazionali degli ultimi 30 anni.
 
Le politiche economiche degli ultimi tre decenni sono state legittimate, senza incontrare resistenze significative da parte degli economisti e dell’accademia, dal falso postulato della moderna teoria economica che i mercati finanziari, se liberati da regole e controlli, funzionano in modo perfetto nel determinare il prezzo giusto per le transazioni reali e finaziarie di mercato. Quindi, come affermato e dimostrato nei libri di testo prevalentemente in uso nelle università, i mercati finanziari debbono essere autoregolati poiché ”nessuno conosce la realtà meglio del mercato”. A dimostrazione di questa affermazione si sostiene che se qualcuno fosse più informato dei mercati potrebbe arricchirsi. Ma è proprio questo che direttori di banca e altri specialisti hanno fatto per decenni con effetti disastrosi su noi meno informati risparmiatori e sull’economia nazionale in generale! I politici hanno compiuto un errore disastroso e imperdonabile nel cedere a questa facile e sbagliata argomentazione.
 
Ma perchè hanno sbagliato anche i ”governatori” delle maggiori banche centrali che a questo errore ne hanno aggiunto un altro, anch’esso risultato delle raccomandazioni dei manuali di economia più in uso, laddove si sostiene l’esistenza di uno stretto rapporto tra l’aumento della massa monetaria e i prezzi al consumo? I ”governatori” delle banche centrali hanno perseguito testardamente, nella politica dei tassi di interesse, l’obiettivo dell’inflazione programmata (inflation targeting). Sia negli Stati Uniti sia in Europa espressero ampio consenso (2007) sulla stima di un tasso di crescita annua dei prezzi al consumo del 2%. L’ipotesi che una crescita annua del 20-30% sui mercati azionari e immobiliari potesse produrre squilibri macroeconomici non era prevista dai libri di testo, e quindi le banche centrali utilizzarono modelli macroeconomici che non prendono in considerazione il settore finanziario. Nel settore finanziario la teoria economica prevalente è terribilmente sottosviluppata e i principali libri di testo affermano tuttora che il denaro non svolge un ruolo importante nell’economia nel lungo periodo. Una affermazione sbagliata che ha contribuito a sottovalutare l’ampiezza della crisi. 
 
Come far fronte alla crisi? Come sottolineato dall’Economist la teoria economica prevalente non ha alcuna risposta diversa da quella di lasciare ancora una volta le forze di mercato libere di operare. La politica economica è secondo importanti economisti e osservatori inefficiente e quindi la migliore risposta è ”nessuna politica”. La ragione della persistente disoccupazione, secondo la teoria macroeconomica ufficiale, è da ricercare nella scarsa capacità di adattamento dei salari e dei prezzi. Se il salario monetario fosse totalmente flessibile la disoccupazione scomparirebbe o resterebbe limitata a fenomeni stagionali o transitori. Quindi, la persistenza della crisi non dipende da speculazioni o arricchimenti finanziari e immobiliari o altri fenomeni consimili, sostengono gli esperti ed economisti ufficiali, ma da una scarsa capacità di adattamento e reazione dei prezzi e dei salari causata da imperfezioni di mercato spesso causate da interventi politici (salario minimo, indennità alte di disoccupazione, alta fiscalità) oppure dal potere di mercato troppo alto dei sindacati. Quindi saremmo di fronte sia a inefficienza politica sia a errori di politica economica (government failures), che hanno consentito queste imperfezioni di mercato. La politica più giusta, in conclusione, è quella di continuare nello sfoltimento delle regole di mercato e nella riduzione dei benefici sociali del welfare. Da qui la constatazione delll’Economists che gli economisti prevalenti non hanno alcuna proposta seria su come risolvere la crisi. 
 
Tuttavia e fortunatamente non sempre i politici responsabili hanno dato ascolto agli economisti prevalenti. Se ciò fosse avvenuto avremmo rischiato nella situazione attuale una crisi di dimensioni simili a quella degli anni Trenta. Negli anni 1929-1932 gli economisti prevalenti dominavano nella politica economica ma l’arrivo al potere di Franklin Roosevelt consentì l’avvio della politica di New Deal. A questo si affiancò l’economista inglese John Maynard Keynes con una teoria macroeconomica che spiegò perché un sistema di mercato senza regole genera il riprodursi continuo di una alta disoccupazione. Questo insegnamento fu sviluppato e applicato dal 1936 fino agli anni Settanta, quando con l’affermarsi del pensiero politico neoliberale (con Reagan negli Stati Uniti e Thatcher in Gran Bretagna) fu accantonato. Non fu più politicamente corretto affermare che lo Stato e le banche centrali dovevano svolgere un ruolo politico attivo nel limitare la disoccupazione. 
 
Gli avvenimenti del 2001 negli Stati Uniti e una serie di cambiamenti politici in Europa in quegli anni con l’elezione di governi socialdemocratici (Gran Bretagna, Germania, Spagna e Scandinavia) spinsero lo Stato a modificare il concetto di correttezza politica nella politica economica e dedicare nuovamente attenzione alle politiche economiche ed al ruolo propulsivo della politica finanziaria. I tentativi di contrastare e stabilizzare l’instabilità dei mercati ottennero un buon risultato agli inizi del Duemila in numerose economie europee. La ripresa economica fu favorita da una riduzione significativa del tasso di interesse. Tuttavia, sono proprio quelle misure finanziarie che hanno aperto la strada alle politiche attuali. Infatti, in assenza di teorie economiche adeguate, i politici cercano la soluzione mediante ulteriori ribassi del tasso di interesse e l’aumento del debito pubblico. Il che spinge l’Economist ad interrogarsi se una politica espansiva di questo tipo, se può avere effetti positivi sulla ripresa, non apra tuttavia la porta alla prossima crisi economica.
 
Questa domanda, anche se rilevante, non può tuttavia ricevere risposte soddisfacenti fino a quando i manuali di economia prevalenti nelle nostre università e nella cultura economica corrente non siano stati riscritti in modo da dare risposte in grado maggiore di quanto avviene oggi su cosa nel futuro sia importante e decisivo per lo sviluppo macroeconomico delle nostre società. Gli economisti devono uscire dalle loro torri di avorio e accettare che gli studi economici riguardano tutta la società e devono essere in grado di spiegare i fenomeni reali (the real world). Un mondo che la ”crisi finanziaria” ha certamente contribuito a modificare. 
Jesper Jespersen

Jesper Jespersen is professor of economics at Roskilde University.(jesperj@ruc.dk).
Member of the EMU committee appointed by the Council for European policy,2000, He has contributed at several Parliamentary hearings on EMU respectively in Januar 2009 and Februar 2012. Together with Dr. Bruno Amoroso published L’Europa oltre l’Euro, by RX-CastelVecchi, Roma, Settembre 2012, info@castelvecchieditore.com